Corporate crime negli U.S.A. Dati empirici sugli enti condannati e i loro illeciti

di  Megi  Trashaj,  Dottoranda  in Diritto penale;  Avvocato

 

 

La U.S. Sentencing Commission, agenzia indipendente che dal 1984 assume un ruolo importante nello sviluppo della politica criminale statunitense, ha recentemente pubblicato un report che riassume la storia delle organizational guidelines e fornisce dati empirici sulle sentenze di condanna adottate dagli anni ’90 ad oggi nei confronti degli enti che hanno posto in essere comportamenti illeciti secondo la normativa U.S.A.

 

1. Le origini delle organizational guidelines

Le organizational guidelines, pubblicate per la prima volta nel 1991 all’interno del Chapter Eight del Guidelines Manual e successivamente aggiornate nel 2004 e nel 2010, nascono grazie alla proficua cooperazione della U.S. Sentencing Commission con diversi soggetti – tra i quali agenzie federali, imprese, gruppi rappresentativi degli interessi industriali e accademia –  per dare attuazione agli obiettivi definiti dal Sentencing Reform Act (anche noto come “SRA”) del 1984.

 

Il Sentencing Reform Act prendeva a sua volta vita per eliminare le ingiustificate disparità presenti nelle sentenze di condanna statunitensi e quindi, in estrema sintesi, per arginare la discrezionalità dell’organo giudicante in fase di condanna.

 

Così venne istituita la U.S. Sentencing Commission e le venne attribuito il compito di approvare delle linee guida che poi i giudici avrebbero usato per selezionare la pena all’interno della cornice edittale normativamente prescritta.

 

Seppure all’epoca del Sentencing Reform Act i tempi fossero prematuri per l’elaborazione di linee guida prettamente destinate al crimine d’impresa, già da allora si evidenziava la necessità di differenziare le prescrizioni dedicate alle persone fisiche rispetto a quella applicabili alle persone giuridiche in modo da tener conto delle “differenze nelle risorse finanziarie di queste due categorie di imputati” e quindi di dar rilievo al “maggior danno economico per le vittime” e al “maggiore guadagno” per l’impresa nel caso di crimine posto in essere dall’organizzazione (relazione del Senato di accompagnamento del SRA).

Così, istituita, la U.S. Sentencing Commission prese prima vita il Manuale delle linee guida (dedicato agli illeciti individuali) e, solo successivamente – a causa della complessità della materia relativa agli illeciti posti in essere dagli enti – venne approvato e aggiunto il Chapter Eight contenente le organizational guidelines.

 

2. Il metodo delle organizational guidelines

Seppur all’inizio guardate con sospetto da alcuni commentatori, le linee guida dirette alle corporations hanno acquisito nel tempo sempre maggior autorevolezza grazie al metodo innovativo (o quantomeno tale per il diritto penale) che le anima fin dall’origine: indurre alla conformità attraverso il carrot and stick approach, tecnica che combina premialità, per coloro che rispettano la norma, e sanzioni, per chi invece la infrange.

Più nel dettaglio, le organizational guidelines

  • propongono incentivi per le corporations che si impegnano nell’autocontrollo della propria condotta (cd. self-police),
  • guidano gli enti nella creazione di efficaci programmi di etica e compliance,
  • stabiliscono specifici fattori per accertare la responsabilità delle imprese (cd. factors of culpability).

 

3. L’accertamento della “culpability”

Le linee guida, pensate con finalità di deterrenza (deterrence) degli illeciti posti in essere dalle corporations e di autoresponsabilizzazione dell’ente, poggiano sull’idea per cui all’impresa che commette un illecito dovrebbe essere applicata una sanzione commisurata sia alla “gravità” del fatto posto in essere che alla “culpability” dell’organizzazione.

 

Se la gravità può essere desunta dal giudice guardando a fattori quali quello del danno al bene giuridico “intaccato” dalla condotta illecita, il grado di “culpability” dell’organizzazione, secondo le linee guida, deve essere accertato tenendo in considerazione sei specifici fattori.

 

I fattori che segnalano una maggior “culpability” dell’ente sono quattro:

  1. l’essere direttamente coinvolto o l’aver tollerato l’attività illecita;
  2. la storia “criminale” dell’organizzazione
  3. l’avvenuta violazione di un ordine
  4. l’ostruzione alla giustizia.

 

I fattori che invece, una volta accertati, mitigano la “culpability” (e di conseguenza la sanzione) sono

  1. l’esistenza di efficaci programmi di compliance e codici etici;
  2. l’aver fatto emergere l’attività illegale o l’aver cooperato con le autorità e, in ultimo, l’accettazione delle responsabilità per i fatti contestati.

 

4. I dati empirici sul corporate crime negli U.S.A.

A trent’anni dall’originaria approvazione delle linee guida, che continuano a rappresentare (non solo negli U.S.A.) lo standard di riferimento per la progettazione dei programmi di compliance e dei codici etici, la U.S. Sentencing Commission, con il documento in commento, offre una panoramica sulla loro applicazione diffondendo informazioni circa il numero di condanne intercorse, la tipologia di enti sanzionati e la varietà delle condotte contestate.

 

Questa operazione di raccolta e diffusione di elementi empirici è di fondamentale importanza, innanzitutto dal punto di vista della politica criminale, perché permette di riflettere sull’efficacia di un determinato strumento di regolamentazione alla luce di dati relativi alla sua concreta applicazione. Solo partendo da questi dati, infatti, si può discutere sul “se” le linee guida abbiano raggiunto il loro obiettivo e sull’eventuale esigenza di una loro modifica.

 

4.1 Il numero di condanne

Nell’ambito dei 94 distretti federali U.S.A. sono annotate, con riferimento agli ultimi trent’anni, 4.946 condanne a carico di enti.

 

Tale dato va rapporto con le circa due milioni di condanne a carico di individui intercorse nello stesso periodo di tempo.

 

Dal 1992 al 2000 si registra un trend crescente di sentenze di condanna a carico delle imprese (flusso che raggiunge il proprio picco nel 2000 con un numero di sentenze registrate quell’anno pari a 304). Dal 2000 invece si annota un’inversione di tendenza e così nel 2019 si contano 118 sentenze di condanna a carico di corporations, nel 2020 sono 94 e nel 2021 sono in totale 90.

 

Questi dati, se non giustificati da fattori quale, a titolo esemplificativo, potrebbe essere un minor intervento delle autorità di controllo, potrebbero far riflettere sull’avvenuto raggiungimento di uno degli obbiettivi delle linee guida ovvero quello della prevenzione attraverso premi per l’ente che si adopera perché al suo interno non si verifichino misconducts.

 

4.2 Gli enti condannati

Come forse poteva essere facile intuire, la maggior parte degli organizational offenders ha sede negli U.S.A. (88,1%). Quello che invece risultava più difficile prevedere, almeno per chi è abituato a pensare alle imprese americane come colossi con infinte risorse, è che nella maggior parte dei casi (70,4%) ad essere condannate sono imprese con meno di 50 dipendenti. Quelle con più di 500 risorse rappresentano solo l’8,1% delle condanne.

Dati questi che fanno inevitabilmente tornare alla mente il dibattito italiano attorno al d.lgs. n. 231 del 2001 sull’esigenza di differenziare i requisiti di compliance imposti alle PMI rispetto agli standard che ci si può attendere dalle grandi aziende.

 

Il 92,2% degli enti condannati è una private organization, le public organizations rappresentano, invece, il 4,8% degli offenders, i restanti sono altre variegate tipologie di attori.

 

4.3 Che tipi di illeciti?

Nei trent’anni di applicazione delle guidelines, l’80,4% delle condanne ha avuto luogo per sei tipologie di illeciti che si affermano quindi come quelli più “praticati” dagli organizational offenders: al primo posto abbiamo le “fraud che rappresentano il 30,1% del totale delle condanne, al secondo le violazioni di norme ambientali (24%), al terzo quelle della disciplina antitrust (8,4%), seguono altre tipologie di illeciti.

In fondo alla classifica troviamo i reati fiscali (3,4%), la corruzione (2,8%), quelli in materia di droga (2,6%) e di immigrazione (2,3%).

 

Anche tali dati dovrebbero far riflettere, in particolare sull’ampiezza del campo oscuro in relazione a determinati illeciti d’impresa che, seppur non rilevanti quantitativamente nelle classifiche di ricorrenza, sono invece presenti nella realtà empirica ma faticano ad emerge nei documenti ufficiali perché non vengono accertati. Non si dimentichi infatti che il corporate crime gode – come il white collar crime –  del cd. “privilegio degli affari” (Edwin H. Sutherland) che porta con sé, tra le varie conseguenze, quella di una difficoltà nell’accertamento dell’illecito posto in essere in ambito professionale.

 

4.4 Gli enti si dotano di modelli di organizzazione o procedono alla disclosure?

I dati diffusi dalla U.S. Sentencing Commission evidenziano che pochi, anzi pochissimi, enti condannati per illeciti d’impresa disponevano alla commissione dell’illecito di programmi di compliance.

Nel 89,6% dei casi, infatti, le condanne U.S.A. degli ultimi trent’anni hanno colpito imprese che non si erano dotate di quelli che, italianizzando, chiameremmo modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati.

 

Solo 11 dei 4.946 organizational offenders hanno ricevuto una riduzione della “culpability” (secondo i criteri sopra esposti) per aver avuto, alla commissione dell’illecito, programma di compliance e codice etico efficaci.

 

Ancor meno (1,5%) le imprese che hanno proceduto alla disclosure del reato.

 

Anche tali dati sono punti di partenza per molteplici riflessioni. Si potrebbe cominciare, per esempio, dal domandarsi perché l’impresa non adotta i programmi di compliance per comprendere se compie una scelta “illecita” consapevole, se li ritiene inutile burocrazia o se invece manchi, più in radice, una sensibilizzazione culturale sui danni del corporate crime. Analoghe considerazioni potrebbero ruotare attorno alla mancanza di disclosures: gli incentivi delle guidelines non sono sufficienti a giustificare l’attività di self-police? Cos’altro si potrebbe fare affinché l’ente sia davvero il primo soggetto interessato a che al suo interno tutto sia svolto in conformità delle norme?

 

5. Il d.lgs. 231/2001 e il corporate crime in Italia

Il report della U.S. Sentencing Commission menziona espressamente il d.lgs. 231/2001 come strumento normativo ispirato alle organizational guidelines statunitensi. Se però oltre oceano sono riusciti nell’opera di raccolta di dati empirici sul corporate crime, nel belpaese le statistiche, almeno in questo settore, non vanno ancora di moda. Così ad oggi mancano elementi per poter riflettere seriamente sull’efficacia dello strumento volto a regolamentare l’illecito amministrativo posto in essere dall’ente e questo ha inevitabili ripercussioni sulle scelte di politica criminale che vengono compiute in assenza di elementi empirici fondamentali per la prevenzione degli illeciti.

Proprio alla luce di tali carenze, il Centro Nazionale di Difesa e Prevenzione Sociale (CNPDS), insieme al Ministero della Giustizia e alla Procura Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, ha avviato una ricerca sull’applicazione del d.lgs. n. 231/2001 dal titolo “I vent’anni del Decreto legislativo 231/2001: dimensione empirica e prospettive di riforma”, a cui partecipano oltre dieci Atenei su tutto il territorio nazionale, Banca d’Italia, Confindustria e Assonime. La ricerca è coordinata dai professori Francesco Centonze e Stefano Manacorda e inaugura una metodologia di analisi e verifica dell’impatto della legislazione di tipo data driven. Uno degli obiettivi è quello di addivenire alla raccolta di dati empirici, simili a quelli pubblicati dalla U.S. Sentencing Commission, che siano la base per riflettere sul corporate crime in Italia e sull’efficacia del suo strumento di regolamentazione (il d.lgs. 231/2001).

Alcuni preliminari dati sull’applicazione in Italia del d.lgs. 231/2001, elaborati nell’ambito del menzionato progetto, sono stati presentati durante il webinar inaugurale del 1° luglio 2021.

 

 

Clicca qui per accedere al report della U.S. Sentencing Commission pubblicato il 29 agosto 2022.