Il Tribunale di Perugia ammette la messa alla prova per l’ente: sconfessate le S.U. del 2023

di    Anna    Pampanin,   Dottoranda  in  Diritto  Penale

 

 

 

 

1. Introduzione

 

Con l’ordinanza del 7 febbraio 2024 il Tribunale di Perugia ha ritenuto ammissibile la messa alla prova per l’ente collettivo.

La pronuncia è meritevole d’interesse perché, ponendosi nel solco di una precedente decisione del Tribunale di Bari, si è discostata dalla sentenza n. 14840 del 6 aprile 2023 con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano ritenuto suddetto istituto inapplicabile in materia di responsabilità degli enti ex d. lgs. 231/2001.

Il Tribunale di Perugia si è posto il tema dell’intervenuta pronuncia della Suprema Corte, concludendo che «deve escludersi che la affermata inapplicabilità agli enti della disciplina della messa alla prova possa spiegare effetti vincolanti, trattandosi di un tema in alcun modo collegato con l’oggetto del contrasto giurisprudenziale rimesso in quel caso alle Sezioni Unite, che atteneva a una questione prettamente processuale legata alla legittimazione da parte del Procuratore Generale all’impugnazione dei provvedimenti emessi in tema di messa alla prova».

Il provvedimento in esame ritorna dunque sull’annosa questione dell’applicabilità dell’istituto della sospensione con messa alla prova alle persone giuridiche, prendendo posizione in senso favorevole sul punto e riaccendendo il delicato dibattito che per anni ha interessato la dottrina e la giurisprudenza.

 

 

2. La vicenda processuale e le questioni giuridiche affrontate

 

L’ordinanza in commento interviene in una vicenda in cui una società era chiamata a rispondere del delitto di lesioni colpose commesso con violazione delle disposizioni in materia antinfortunistica (art. 25-septies, co. 3, d.lgs. 231/2001), in relazione al reato presupposto di cui all’art. 590, co. 3, c.p., contestato al datore di lavoro.

A fronte delle richieste difensive il Tribunale di Perugia ha ritenuto di disporre la sospensione del procedimento per la messa alla prova nei confronti dell’ente collettivo.

La premessa imprescindibile da anteporre alla conclusione raggiunta – si legge nell’ordinanza – attiene alla possibilità per l’ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis c.p., nell’ambito del processo instaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex d.lgs. n. 231/2001.

L’applicazione dell’istituto in parola, in mancanza di norme di richiamo o di collegamento che possano ricondurre la messa alla prova agli enti quali possibili beneficiari di essa, ha fatto registrare nella giurisprudenza di merito decisioni contrastanti, contrapponendosi ad un gruppo di ordinanze negative all’ammissione dell’ente alla prova (per tutte, ad. es., Trib. Milano, 27 marzo 2017) altre pronunce invece favorevoli (da ultimo, Trib. Bari, 15 giugno 2023).

Per quanto maggiormente interessa in questa sede, come già anticipato, la Corte di Cassazione, nella sua più alta composizione, ha da ultimo affrontato la questione con la sentenza n. 14840/2023. In quell’occasione, dopo essersi pronunciate sulle questioni di diritto – relative alla legittimazione del procuratore generale ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla prova, nonché alla legittimazione del procuratore generale a impugnare, con ricorso per cassazione, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies c.p.p. – le Sezioni Unite hanno ritenuto di privilegiare l’interpretazione secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’art. 168-bis c.p., non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato di cui al d.lgs. 231/2001.

Ai fini di una miglior chiarezza espositiva è necessario richiamare brevemente le ragioni addotte dalle Sezioni Unite a sostegno della decisione, per la cui analisi approfondita si rinvia ad un precedente contributo. Ebbene, assumendo come premesse teoriche la natura di tertium genus della responsabilità degli enti e la natura sanzionatoria della messa alla prova, la Corte ha affermato che la riserva di legge impedisce di applicare un trattamento sanzionatorio a una categoria di soggetti (gli enti collettivi) e di illeciti (quelli indicati nel d. lgs. n. 231/2001) non espressamente contemplati dalla legge penale. Né è praticabile la strada dell’analogia, quandanche in bonam partem, posto che la responsabilità da reato degli enti non è assimilabile od omogenea al sistema penale e, comunque, riguarda soggetti «giammai indicati quali destinatari di precetti penali». Infine il Supremo Collegio ha ricordato che la disciplina della sospensione con messa alla prova è formulata con caratteristiche tali da adattarsi a un imputato persona fisica, non anche a un ente collettivo.

In ragione dell’intervenuta pronuncia delle S.U., il Tribunale di Perugia ha sentito l’esigenza di motivare dettagliatamente la decisione cui è pervenuto, fornendo una puntuale e precisa ricostruzione argomentativa.

Come si evince dalla lettura del provvedimento, le questioni affrontate dal Tribunale sono state principalmente due.

Dopo aver ripercorso gli snodi logico-giuridici che hanno portato le Sezioni Unite a ritenere non applicabile l’istituto della messa alla prova agli enti collettivi, il Tribunale di Perugia si è posto la questione dell’efficacia vincolante o meno del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte nella suddetta occasione e, dunque, della possibilità da parte del Tribunale di discostarsi dallo stesso.

Una volta risolto positivamente quest’ultimo quesito, negando dunque efficacia vincolante alla decisione della Corte, i giudici hanno ricostruito le ragioni giuridiche in base alle quali si sono discostati dalla pronuncia delle Sezioni Unite, dichiarando ammissibile l’istituto della messa alla prova alle persone giuridiche.

 

 

3. L’efficacia vincolante della sentenza delle Sezioni Unite

 

Prima di passare in rassegna le ragioni ‘sostanziali’ sottese alla decisione in questa sede in commento, è necessario rendere conto della preliminare questione attinente alla efficacia vincolante (o meno) del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.

A tal riguardo i giudici perugini hanno osservato che la legge n. 103 del 23 giugno 2017 ha introdotto il nuovo comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p., il quale prevede una rimessione ‘obbligatoria’, che scatta ogni volta in cui il collegio di una delle sezioni semplici ritenga di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite. In altri termini sarebbe stato «codicizzato il principio dello stare decisis» limitato tuttavia «alle sole sentenze delle sezioni unite».

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 49744 del 7 dicembre 2022 ha poi significativamente chiarito che il vincolo derivante dal principio di diritto affermato, ai sensi dell’art. 618, co. 1-bis, c.p.p., dalle Sezioni Unite della Corte «riguarda esclusivamente l’oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende ai temi accessori o esterni».

Volendo far applicazione del principio di diritto appena richiamato, deve escludersi – si legge nell’ordinanza – «che nel caso di specie la affermata inapplicabilità agli enti della disciplina della messa alla prova possa spiegare effetti vincolanti» e ciò in quanto «si tratta, all’evidenza, di un tema in alcun modo collegato con l’oggetto del contrasto giurisprudenziale rimesso alla soluzione dell’organo di composizione dei contrasto, che atteneva a una questione prettamente processuale legata alla legittimazione da parte del Procuratore Generale della impugnazione dei provvedimenti emessi in materia di messa alla prova».

Sulla base di tale argomento il Tribunale di Perugia ha quindi ritenuto di potersi discostare dalla soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

 

 

4. La applicabilità dell’istituto della messa alla prova alle persone giuridiche

 

Ciò chiarito, il Tribunale passa ad affrontare, nel merito, le conclusioni della giurisprudenza di legittimità, giungendo a ritenere l’affermazione sull’impossibilità per l’ente di essere ammesso alla prova – contenuta nella sentenza delle Sezioni Unite – non persuasiva.

Ad avviso del Tribunale di Perugia, l’istituto della messa alla prova non può essere equiparato sic et simpliciter a un trattamento sanzionatorio. A differenza di quest’ultimo, infatti, che non contempla alcun coinvolgimento dell’imputato nel processo decisionale e applicativo della pena, la sospensione del procedimento con messa alla prova «presuppone indefettibilmente la volontà dell’imputato che, non contestando l’accusa, si sottopone al trattamento».

In secondo luogo, è necessario considerare che l’esito positivo del lavoro di pubblica utilità ha natura di causa estintiva del reato: di conseguenza, lungi dall’ampliare la tipologia di trattamenti sanzionatori da infliggere all’ente, estende il ventaglio di procedimenti speciali a sua disposizione, consentendogli una miglior definizione della strategia processuale.

In assenza, dunque, di effetti sfavorevoli nei confronti dell’ente – chiamato a svolgere il lavoro di pubblica utilità solo in presenza di un suo espresso consenso e con effetti estintivi dell’illecito contestato – l’applicazione della disciplina della messa alla prova appare compatibile con il sistema della responsabilità di cui al d.lgs. n. 231/2011, dovendo escludersi la violazione del principio di tassatività e riserva di legge, tenuto conto che il divieto di analogia opera soltanto quando genera effetti sfavorevoli per l’imputato.

Infatti, evidenziano i giudici, «il divieto di analogia in materia penale, del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce all’intera materia (penale), ma si rivolge alle sole disposizioni punitive». Di conseguenza non sembrerebbero sussistere ostacoli di carattere costituzionale alle operazioni di interpretazione analogica nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendosi l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem.

Secondo quanto sancito dal Tribunale, inoltre, per escludere un’operazione di carattere analogico nel caso di specie non si potrebbe neppure far ricorso all’art. 14 delle Preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica in presenza di leggi eccezionali. Nel caso in esame, infatti, l’impedimento all’applicazione analogica dell’istituto della messa alla prova agli enti sarebbe meramente apparente. E ciò in quanto si ritiene che le cause di estinzione del reato non abbiano carattere eccezionale e, dunque, che per le stesse residui uno spazio per l’applicazione analogica.

Neanche la sostenuta disomogeneità tra il sistema della responsabilità delle persone fisiche e quello della responsabilità a carico dell’ente varrebbe ad escludere la possibilità per quest’ultimo di essere ammesso alla prova. Sul punto l’ordinanza osserva che è lo stesso legislatore ad evocare un espresso richiamo analogico mediante gli artt. 34 e 35 del d.lgs. 231/2001, rinviando (espressamente, appunto) alle norme del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’imputato in quanto compatibili.

Vi è un ultimo punto fondamentale nella struttura motivazionale del provvedimento.

La Corte di Cassazione, nella sentenza più volte richiamata, ha ribadito che l’istituto della messa alla prova è stato designato e modulato specificatamente per la persona fisica.  Ciò emergerebbe da una serie di elementi contenuti nell’art. 168-bis c.p., laddove si fa riferimento all’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma implicante tutta una serie di attività e l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale. L’istituto sembrerebbe essere così modellato, oltre che modulato, sull’imputato persona fisica.

Tuttavia, ad avviso dei giudici perugini neppure tali aspetti appaiono ostativi alla disciplina della sospensione con messa alla prova nel procedimento volto all’accertamento della responsabilità degli enti. Attraverso un’interpretazione che valorizza la «prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato» e il «risarcimento del danno» di cui all’art. 168-bis c.p. – che fissa le condizioni per la sospensione del procedimento con messa alla prova –, l’ordinanza in parola ritiene che il risarcimento della vittima sia presupposto imprescindibile dell’istituto di ‘nuovo’ conio, non alternativo ma congiunto alla eliminazione delle conseguenze negative. D’altronde, «il risarcimento del danno sembra essere caratterizzato non solo da una funzione di prevenzione generale, ma anche dalle stesse istanze special-preventive cui sembra ispirarsi la disciplina della messa alla prova dell’imputato adulto».

Nel caso di specie, conclude il Tribunale, la società ha provveduto al risarcimento integrale del danno subito dalla persona offesa. Oltre ad aver assolto ogni obbligazione risarcitoria, la società si è dotata di un modello organizzativo e ha svolto un programma di trattamento elaborato dall’UEPE che contempla attività, prescrizioni e condotte che si sostanziano in impegni specifici che rispondono alle caratteristiche proprie della messa alla prova. Tale programma prevede un «coinvolgimento diretto della società» per cui non si verifica alcuna «sorta di immedesimazione rovesciata in cui le colpe dell’ente ricadrebbero sugli organi e questi sarebbero chiamati a rieducarsi per conto di un diverso soggetto».

 

 

5. Conclusioni

 

Come già anticipato, la pronuncia in esame deve essere apprezzata per lo sforzo motivazionale compiuto. Il Tribunale di Perugia, al dichiarato fine di giustificare il rifiuto dell’impostazione delineata dai giudici supremi, ha fornito una convincente argomentazione in senso antitetico.

La pronuncia si articola secondo una sorta di ‘parallelismo’: a ogni elemento posto a sostegno della decisione della Corte di Cassazione ne corrisponde uno ‘uguale’ e contrario che valida la tesi opposta; più nello specifico, partendo proprio dalla analisi della sentenza delle Sezioni Unite, ogni profilo è stato esaminato, confutato e riproposto in ottica di un’interpretazione favorevole all’ammissione dell’istituto.

Ciò che emerge con chiarezza dalla presente analisi è l’urgente bisogno di un intervento normativo.

Alla luce della rilevanza pratica che un istituto quale la messa alla prova riveste all’interno del nostro ordinamento, non è ammissibile che la scelta sia rimessa alla singola sensibilità del magistrato.

Prescindendo dalla presa di posizione circa l’una o l’altra corrente di pensiero, l’attuale situazione necessita di un chiarimento da parte del legislatore, onde evitare pericolose situazioni di incertezza che si pongono in frizione con i principi fondanti del nostro sistema penale.

Ad oggi, in conclusione, non si può che rilevare l’apprezzabile sforzo da parte dei Tribunali di merito nel portare avanti e sostenere l’applicabilità di un istituto che, se ammesso, potrebbe offrire un importante contributo al sistema della responsabilità amministrativa da reato dell’ente.