Corte di Cassazione e d.lgs.231/2001: ai fini dell’esclusione della responsabilità è necessaria la ‘‘presa in carico’’ del rischio specifico da parte dell’ente

di  Anna Pampanin,  Dottoranda di ricerca in Diritto Penale

 

 

 

1. Introduzione

 

Con la sentenza n. 21704 del 22 maggio 2023 la Corte di Cassazione, Sezione IV, è tornata a pronunciarsi in materia di responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato ai sensi del d.lgs. 231/2001.

 

Attraverso il richiamo e la conferma di alcuni principi già enucleati dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte, Cass. pen., S.U., sent. n. 38343/2014, c.d. caso ThyssenKrupp), la citata pronuncia assume rilevanza all’interno del nostro ordinamento intervenendo in tema di principio di correlazione tra accusa e sentenza con riferimento all’interesse o vantaggio dell’ente, nonché sul criterio di accertamento della responsabilità del soggetto collettivo.

 

Riguardo a quest’ultimo punto la Corte ha affermato che non è sufficiente, ai fini dell’esclusione della responsabilità dell’ente, l’adozione di un Modello Organizzativo ai sensi del d.lgs. 231/2001 da parte della Società, bensì occorre dimostrare l’idoneità del Modello stesso mediante la considerazione e la «presa in carico» del rischio specifico relativo ad ogni singola attività.

 

 

2. La vicenda processuale: i fatti e le decisioni giudiziarie

 

I fatti oggetto del processo in analisi concernono il tragico decesso di un lavoratore, dipendente presso una società (s.r.l.) adibita alla lavorazione e al riciclo del vetro, con mansioni di assistente allo stabilimento durante il turno di notte, comprensive del monitoraggio del corretto funzionamento degli impianti. Il dipendente, recatosi da solo di notte nel locale ove erano presenti gli impianti di sbloccaggio del macchinario, durante le operazioni venne investito da una sostanza venefica che ne causò la perdita di coscienza e la caduta a terra, ove l’uomo venne raggiunto dai fanghi presenti nell’impianto e soffocato.

 

Agli imputati e alla Società vennero di conseguenza addebitate, a titolo di colpa specifica, diverse violazioni; tra queste, l’omessa adozione di misure atte a controllare il rischio in caso di emergenza, la mancata informazione delle procedure da attivare in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, l’omesso allestimento di un impianto di decantazione conforme ai requisiti di sicurezza essenziali, in attuazione della Direttiva 2004/108/CE (c.d. Direttiva macchine”), nonché ulteriori violazioni contestate al medico della società, con specifico riferimento alla presenza, nel ciclo di lavoro, di sostanze organiche e al rilascio di gas deleteri.

 

Secondo la ricostruzione accusatoria, la vittima sarebbe stata impiegata in un intervento manutentivo in un locale privo di adeguato ricambio d’aria, secondo una procedura non formalizzata, ma invalsa nella prassi aziendale, in difetto di indicazioni relative a specifiche conseguenze operative per la manutenzione dell’impianto stesso.

 

In primo grado il GUP del Tribunale di Biella condannò la s.r.l. per l’illecito amministrativo dipendente dea reato di cui all’art. 589, comma 2, c.p., contestato a tre differenti soggetti nelle rispettive qualità di datore di lavoro, di soggetto delegato alla tutela della sicurezza e della salute sul lavoro e di medico competente.

 

La Corte d’appello di Torino, poi, in parziale riforma, ha ridotto la sanzione pecuniaria eliminando le statuizioni civili, confermando tuttavia nella restante parte la sentenza del GUP.

 

Avverso la decisione della Corte territoriale la difesa dell’ente ha proposto ricorso, formulando quattro motivi.

 

Ai fini della presente analisi si ritiene opportuno soffermarsi sulle prime due doglianze, essendo il terzo e il quarto motivo di ricorso inerenti al trattamento sanzionatorio e pertanto non rilevanti in questa sede.

Con il primo motivo deduceva la violazione di legge, con riferimento al principio di correlazione tra accusa e sentenza e il vizio della motivazione in merito alla ritenuta sussistenza di un interesse o vantaggio dell’ente.

 

Quanto al principio di correlazione, il deducente rilevava che la Corte d’appello avrebbe ritenuto la responsabilità amministrativa dell’ente sulla scorta di una violazione non contestata agli imputati, vale a dire l’omessa formazione di una squadra di emergenza, neppure suffragata da elementi fattuali, non essendovi traccia di tale omissione, essendosi contestato al datore di lavoro di non aver previsto l’immediato abbandono del sito. Ne deriverebbe l’impossibilità di configurare una scelta produttiva atta a fronteggiare un pericolo sconosciuto.

 

Quanto al secondo profilo, la difesa rilevava che non tutte le violazioni delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro sono riconducibili allo scopo di assicurare un vantaggio economico all’impresa, potendo un infortunio verificarsi anche per cause non direttamente riconducibili a una logica di abbattimento dei costi per la sicurezza. Nella specie, come evidenziato nell’appello, l’infortunio era conseguito a una sottovalutazione del rischio, dalla quale erano derivate le omissioni contestate (formazione del lavoratore e predisposizione di idonei presidi).

 

Con il secondo motivo si deduceva la violazione di legge e il vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta inidoneità del modello organizzativo adottato dall’ente. La Corte territoriale avrebbe confuso un elemento costitutivo dell’illecito amministrativo (vale a dire l’interesse o vantaggio di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001) con la valutazione del modello organizzativo di cui al successivo art. 6, sovrapponendo quest’ultimo al documento di valutazione dei rischi. La parte aveva già evidenziato nell’appello la circostanza che la società si era dotata di un modello organizzativo sin dal 2014 e che era stato costituito un Organismo di vigilanza, ma la Corte d’appello nulla avrebbe argomentato sul punto, avallando la conclusione per la quale la dimostrazione della commissione del reato e dell’interesse o vantaggio equivarrebbe a dimostrare anche l’inidoneità del modello organizzativo, interpretazione che vanificherebbe, però, la portata dell’art. 6 che necessita, viceversa, di una valutazione in concreto.

 

 

3. La decisione della Corte: la necessaria ‘‘presa in carico’’ del rischio specifico

 

Con la sentenza oggetto della presente analisi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Società.

 

I giudici hanno argomentato la decisione trattando separatamente i diversi motivi di doglianza.

 

Il presupposto fondamentale della soluzione proposta è rappresentato dall’esistenza di una prassi per la quale il turno di notte per la manutenzione del meccanismo di pompaggio per il deflusso del fango veniva affidato ad un solo soggetto, nella piena consapevolezza della criticità del luogo di lavorazione, cioè di un ambiente confinato al cui interno si sprigionava una sostanza venefica. Tale procedura lavorativa era stata accertata nel corso dell’istruttoria ed esaminata nel contraddittorio, garantendo pertanto all’ente la concreta ed effettiva possibilità di articolare le proprie difese.

 

Per tali ragioni, con riguardo al primo motivo di ricorso, la Corte ha affermato che nel caso in esame è mancata una lesione del diritto di difesa – alla cui salvaguardia il principio di correlazione è direttamente funzionale­ –, essendo stato contestato, in sede di imputazione, ai soggetti ritenuti gestori del relativo rischio di non aver adottato le misure necessarie a controllare la situazione della quale si discute.

 

Infatti, la violazione dell’art. 521 c.p.p. (sostenuta dalla difesa) «non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimenti storici oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni».

 

Quanto alla dedotta mancanza di prova dell’effettivo ed apprezzabile vantaggio a favore dell’ente, la Corte ha ritenuto sufficiente e completo il percorso motivazionale dei giudici territoriali, poiché hanno ricollegato il vantaggio dell’ente direttamente alla possibilità di impiegare un solo lavoratore per lo svolgimento, in orario notturno, di una mansione che una squadra di operai, debitamente formata e attrezzata, avrebbe potuto svolgere in sicurezza.

 

Quanto, infine, al secondo motivo di ricorso, anche questo è stato ritenuto infondato.

 

Dopo aver ripercorso brevemente la natura e i criteri di imputazione del modello delineato dal d.lgs. 231/2001, i giudici della Suprema Corte si soffermano sul caso in cui tale responsabilità si configuri in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antiinfortunistica.

 

Innanzitutto si è precisato che la ‘‘colpa di organizzazione’’ deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli; inoltre, si legge in motivazione, «per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell’ente anche i reati colposi, i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente».

 

Peraltro, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l’appunto, della ‘‘colpa di organizzazione’’, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato.

 

Ciò consente di dire, dunque, che l’ente risponde per fatto proprio e che – per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva – deve essere verificata una ‘‘colpa di organizzazione’’ dell’ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.

 

È il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l’imputazione all’ente dell’illecito realizzato nel suo ambito operativo e spetta all’accusa, pertanto, dimostrare la commissione del reato in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell’ente e l’avere essa agito nell’interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro.

 

Calando tali considerazioni nel caso di specie, la Corte ha affermato, contrariamente a quanto asserito dalla difesa, che le valutazioni dei giudici di merito non sono avvenute sulla scorta di meccanismi presuntivi, bensì sulla base di una concreta valutazione di inidoneità del modello.

 

Nella specie, il Tribunale aveva evidenziato che il reato era stato posto in essere da soggetti che rivestivano posizioni apicali nell’ente e valorizzato la tipologia di violazione contestata a tali figure, essendo emersa una vera e propria scorretta impostazione dell’attività produttiva, poi tradottasi in un risparmio di costi nello specifico settore della sicurezza. Ancor più nel dettaglio, i ‘‘tagli’’ avrebbero riguardato le procedure lavorative in luoghi ove esistevano noti fattori di rischio, nonché l’apposita formazione dei lavoratori.

 

Da tale ricostruzione, secondo quanto affermato dalla Corte, sarebbe emersa la mancata presa in carico del rischio specifico nel modello organizzativo.

 

La Società non sarebbe stata in grado, in sede di ricorso, di superare tale valutazione, ad esempio opponendo elementi in grado di dimostrare che lo specifico rischio era stato considerato nel modello organizzativo; al contrario, la difesa si sarebbe limitata a segnalare l’adozione di un Organismo di Vigilanza e di un MOG , evidenziandone parti in cui non emerge la ‘‘presa in carico’’ del rischio specifico relativo a quella lavorazione, ma generiche indicazioni sulle dotazioni strumentali e l’aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza. Il che riscontrerebbe l’affermazione dei giudici territoriali per la quale la ‘‘linea politica’’ dell’ente non era stata orientata all’implementazione della sicurezza.

 

In conclusione, la Società è stata ritenuta responsabile di non aver implementato in concreto le procedure necessarie a minimizzare i rischi derivanti dall’impiego di materiale pericoloso e a controllare le caratteristiche dei locali nei quali doveva operarsi, nonché le circostanze degli interventi di manutenzione (in orario notturno e senza prevedere la presenza di altri lavoratori) e le relative procedure di emergenza. A tale scelta aziendale la Corte ha ricollegato un risparmio di spesa che consente di fondare la responsabilità amministrativa dell’ente: la s.r.l. non ha infatti previsto, tra le procedure gestionali, l’approntamento di una squadra di operai, formata e attrezzata, in grado di intervenire in ambiente di lavoro con presenza di acido solfidrico e tale mancanza ha generato la situazione di pericolo che ha dato causa all’infortunio.

 

 

4. Conclusioni: la ‘‘colpa di organizzazione’’ quale elemento strutturale dell’illecito a carico dell’ente

 

Come anticipato, la pronuncia offre alcuni importanti spunti di riflessione.

 

Apprezzabile è lo sforzo effettuato nella ricostruzione degli elementi costitutivi del modello di responsabilità da reato degli enti.

 

L’affermazione secondo la quale la mancanza o l’inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione non sono sufficienti, di per sé, a fondare la responsabilità dell’ente, sottende alcune logiche garantiste, funzionali ad un sistema rispettoso dei principi fondamentali.

 

La struttura dell’illecito addebitato all’ente è incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno lo scopo di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona giuridica un reato commesso da un soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa.

 

L’ente risponde, dunque, per un fatto proprio. Al fine di scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva, deve essere concretamente verificata la ‘‘colpa di organizzazione’’. Solo il riscontro di un tale deficit organizzativo può giustificare la configurazione dell’illecito.

 

Trattasi, in definitiva, di una interpretazione che attribuisce al requisito della ‘‘colpa di organizzazione’’ dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, ossia di elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione ‘‘colpevole’’ della regola cautelare.

 

Nonostante la completa ricostruzione del quadro teorico di riferimento, alcuni dubbi sorgono in merito alla ‘‘parte centrale’’ della sentenza, o meglio, alla parte che in questa sede maggiormente interesse.

 

Nel delineare le ragioni che hanno giustificato la conferma della pronuncia di secondo grado, la Corte non sembra descrivere il comportamento effettivo che l’ente avrebbe dovuto tenere al fine di impedire l’evento. Anche nella profilazione dei dovuti presidi cautelari da adottare, la Corte si limita a richiamare le procedure interessate dal ‘‘risparmio dei costi’’.

 

Il rischio è quello di (apparentemente) avallare l’idea che la responsabilità sia fondata su una presunzione che l’ente stesso non sia riuscito a superare, con un’indebita inversione dell’onere probatorio.

 

Così facendo, peraltro, si finirebbe per sovvertire i principi tracciati dalla ‘‘recente’’ sentenza resa dalla Corte di Cassazione per porre fine alla vicenda Impregilo (Cass.pen., sent. n. 23401/2022), che ha recato preziosi insegnamenti sulla struttura, l’oggetto e l’accertamento dell’illecito della societas. Nello specifico, in tale occasione la Suprema Corte ha sancito che nella valutazione dell’idoneità del modello di organizzazione, vada rigorosamente bandita la logica del post hoc; la commissione del reato non equivale a dimostrare che il modello sia inidoneo.