Le Sez. Un. negano la possibilità per l’ente di accedere alla MAP

di Anna Pampanin, Dottoranda di ricerca in Diritto penale

 

 

 

1. Introduzione

 

Con la  sentenza n. 14840 del 6 aprile 2023  la Corte di Cassazione ha risolto il contrasto, venutosi a creare in giurisprudenza, circa la possibilità per l’ente, imputato ai sensi del d.lgs. 231/2001, di usufruire della sospensione del procedimento con messa alla prova.

 

La questione rimessa alle Sezioni Unite era la seguente: «se il Procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen. nonché, e, in caso affermativo, per quali motivi, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen.».

 

Al primo quesito, preliminare rispetto a quello dell’applicabilità o meno della messa alla prova alle società, è stata fornita risposta positiva. Già all’esito dell’udienza del 27 ottobre 2022 le Sezioni Unite, attraverso l’informazione provvisoria già analizzata in un precedente contributo, rendevano la seguente soluzione: «Il Procuratore generale è legittimato, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova (art. 464-bis, c.p.p.) ritualmente comunicatagli ai sensi dell’art. 128 c.p.p. In conformità a quanto previsto dall’art. 586 c.p.p., in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme con la sentenza al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova. L’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001».

 

Con specifico riferimento a quest’ultimo profilo, si deve premettere che la questione è stata, specialmente negli ultimi anni, al centro di un acceso dibattito che ha interessato la dottrina e la giurisprudenza di merito, dando origine a numerose pronunce tra loro discordanti.

 

Proprio tale varietà di posizioni ha comportato la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618, comma 1, c.p.p., essendo stato rilevato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa la legittimazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello ad impugnare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova e/o la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464- septies c.p.p., e dipendendo l’esame nel merito –  circa, appunto, la legittimità della messa alla prova della società – , dalla decisione della questione oggetto di contrasto.

 

 

2. La vicenda giudiziale

 

Delineata la questione giuridica nei termini sopra descritti, ai fini di una migliore comprensione è necessario ripercorrere brevemente la vicenda processuale d’interesse.

La pronuncia origina dal ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte d’Appello contro la sentenza del Tribunale di Trento che aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’ente, essendo estinto per esito positivo della messa alla prova l’illecito ascritto alla società.

A quest’ultima era stato contestato l’art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione al delitto di cui all’art. 590, comma 3, c.p.

 

Secondo l’impianto accusatorio, il legale rappresentante della società (a sua volta ammesso alla prova e nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di estinzione del reato), violando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro – e segnatamente l’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008 – si era reso responsabile del reato di lesioni personali colpose commesse in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; l’ente, da questo delitto, avrebbe tratto vantaggio economico, risparmiando sui costi connessi all’adeguamento del macchinario che la persona offesa stava utilizzando quando si verificò l’infortunio.

 

La società, dopo essere stata ammessa all’istituto della messa alla prova, aveva provveduto al risarcimento del danno nei confronti della persona offesa, alla revisione del proprio modello organizzativo e allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, consistito nel fornire ad un organismo religioso dei beni di propria produzione.

 

Con sentenza del 18 dicembre 2019, il Tribunale di Trento, verificato l’esito positivo della prova, dichiarava il non doversi procedere nei confronti dell’ente per l’illecito allo stesso ascritto.

 

Il gravame presentato dal Procuratore generale si basava sull’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, non essendo applicabile – secondo la tesi proposta – agli enti l’istituto previsto dall’art. 168-bis c.p. e, inoltre, sulla mancanza e contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza con la quale è stata disposta l’ammissione alla prova dell’ente.

 

 

3. I poteri impugnatori del Procuratore generale

 

Come già specificato, la Corte ha poi rilevato come l’esame nel merito fosse sotteso alla decisione della questione processuale, avente ad oggetto la facoltà, per il Procuratore generale, di proporre impugnazione avverso l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova ai sensi dell’art. 464-bis c.p.p. e avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies c.p.p.

Sul punto è stato riscontrato un contrasto giurisprudenziale, riassumibile nei termini seguenti:

  • secondo il primo indirizzo, il Procuratore generale presso la Corte di appello è legittimato ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova e, nel caso in cui non sia stata effettuata nei suoi confronti la comunicazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza di sospensione, ad impugnare la stessa unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova;
  • L’orientamento contrario, invece, esclude la legittimazione del Procuratore generale ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento, anche unitamente alla sentenza con il quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova, non essendo espressamente individuato tra i soggetti che possono proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 464-quater ,comma 7, c.p.p.

 

Occorre in tal senso comprendere se l’espressione ‘‘Pubblico ministero’’ contenuta nell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p. riguardi anche il Procuratore generale presso la Corte di appello, o se, invece, in un’ottica di favore per l’istituto della messa alla prova – ispirata al principio di economia processuale – che giustificherebbe una selezione dei soggetti titolari del diritto di impugnazione, l’allusione al ‘‘Pubblico ministero’’ debba essere interpretata in senso restrittivo, con esclusivo riferimento al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale.

 

Così delineati i termini del contrasto, ad avviso delle Sezioni Unite deve essere confermato il primo e maggioritario orientamento.

Partendo dai principi sanciti dalla sentenza delle S.U. n.  33216 del 31 marzo 2016 (Rigacci)  – che ha affermato la diretta e autonoma impugnabilità della sola ordinanza di ammissione alla prova –, la Suprema Corte ha risposto positivamente al quesito sottopostole. Attraverso un percorso logico-argomentativo di carattere prevalentemente testuale, ha affermato che il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello deve ritenersi legittimato a proporre impugnazione – e segnatamente ricorso per Cassazione – avverso l’ordinanza di ammissione alla prova, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p.

 

Nello specifico gli Ermellini hanno ricordato come l’art. 464 –quater, comma 7, c.p.p. non contenga alcuna precisazione normativa selettiva quanto ad uno specifico ufficio del pubblico ministero legittimato all’impugnazione, potendo ricorrere per cassazione, oltre all’imputato, genericamente ‘‘il Pubblico ministero’’. Non vi sarebbero, pertanto, ragioni di carattere letterale per non includere tale regime nel contesto del disposto dell’art. 570 c.p.p., che, sotto la rubrica ‘‘Impugnazione del pubblico ministero’’, declina le regole generali delle impugnazioni della parte pubblica.

 

Il citato art. 570 c.p.p. utilizza la formula onnicomprensiva ‘‘pubblico ministero’’, indubbiamente riferibile sia al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale sia al Procuratore generale presso la Corte d’appello, non prestandosi ad equivoci di sorta quanto al suo significato.

 

Inoltre, non indurrebbero a lettura diversa né l’introduzione dell’art. 593-bis c.p.p., in tema di appello del pubblico ministero, che prevede la possibilità per il Procuratore generale di appellare la sentenza di primo grado solo nei casi espressamente richiamati dalla norma, né il conseguente inserimento nel primo comma dell’art. 570 della clausola di salvezza, secondo cui «Salvo quanto previsto dall’art. 593- bis, comma 2, il Procuratore generale può proporre impugnazione […]».

 

Così argomentando la Corte di Cassazione sostiene che la legge non distingua e non selezioni per il profilo soggettivo uno specifico ufficio del Pubblico ministero, e che, al contrario, il riferimento generico a quest’ultimo come titolare del potere di impugnazione non possa che significare la legittimazione anche del Procuratore.

 

Viene, al contrario, sovvertito il secondo orientamento, il quale, sulla base di argomenti sistematici volti a sottolineare l’esplicita finalità deflattiva dell’istituto, propende per l’esclusione del Procuratore generale dalla cerchia dei soggetti legittimati all’impugnazione dell’ordinanza di sospensione del processo e contestuale ammissione alla prova dell’imputato.

 

In conclusione, risposta positiva deve essere data anche alla seconda parte del quesito rimesso alla decisione, riguardante la possibilità per il Procuratore generale di impugnare la sentenza di estinzione del reato, pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies c.p.p. e, nel caso di mancata comunicazione dell’ordinanza di ammissione alla prova, di impugnare tale ordinanza in uno alla sentenza di estinzione del reato. In tal senso, sebbene sia previsto un apposito rimedio impugnatorio dall’art. 464-quater, comma 7, c.p.p. avverso l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova, l’impossibilità di accedere ad esso da parte del legittimato, comporta la riespansione del potere di impugnazione, secondo le regole generali dettate per le ordinanze ex art. 586 c.p.p.

 

 

4. L’esame nel merito: l’impossibilità per l’ente di accedere alla messa alla prova

 

Una volta risolto il quesito preliminare inerente alla legittimazione del Procuratore generale all’impugnazione, la Corte si è soffermata sull’esame di merito, avente ad oggetto l’applicabilità (o meno) della messa alla prova agli enti.

 

Con il terzo e quarto motivo di ricorso – specificatamente riguardanti le ordinanze di ammissione alla prova della società –, il Procuratore generale lamentava la ricorrenza di vizi di violazione di legge, deducendo la sussistenza di una motivazione meramente apparente delle ordinanze suddette. Secondo la tesi della pubblica accusa, queste avrebbero contenuto in premessa un mero richiamo alla «sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive di cui all’art. 168 – bis c.p.» ed al fatto che «il reato presupposto rientra tra quelli di cui all’art. 168 – ter c.p.», senza spiegare perché l’ente possa essere ammesso alla prova e svolgere lavoro di pubblica utilità, ovvero un’attività alternativa.

 

Attraverso un più che apprezzabile sforzo, la sentenza ripercorre le principali pronunce intervenute sul punto – per la cui analisi si rinvia ad un precedente post –, estrapolandone i principi utili alla risoluzione della problematica.

 

Liter motivazionale presenta il seguente schema logico – giuridico.

Dopo aver sottolineato l’assenza – de jure condito – di una normativa di raccordo che legittimi un’applicazione estensiva dell’istituto di cui all’art. 168-bis c.p. agli enti, le Sezioni Unite inquadrano, rispettivamente:

  • la responsabilità amministrativa dell’ente all’interno di un tertium genus;
  • la messa alla prova ex 168 – bis c.p. nell’ambito di un «trattamento sanzionatorio» penale.

 

Quanto al primo profilo occorre rilevare che il tema della natura della responsabilità amministrativa degli enti è stato oggetto di un nutrito dibattito sino alla famosa sentenza n. 38343 del 24/04/2014 delle Sezioni Unite , che ha confermato la soluzione in merito all’effettivo ‘‘profilo ontologico’’ di tale modello di responsabilità.

 

La richiamata pronuncia ha definitivamente statuito la riconduzione della responsabilità amministrativa degli enti ad un tertium genus, che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo. Quest’ultima impostazione è quella che il legislatore ha inteso privilegiare nel delineare il sistema del d.lgs. 231 del 2001, come chiaramente si evince dalla  Relazione ministeriale di accompagnamento al decreto. Tale impianto normativo costituisce un corpus di peculiare impronta, un «terzo genere», appunto, che pur presenta evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale.

 

Quanto alla messa alla prova ex art. 168-bis c.p. essa deve, invece, inquadrarsi nell’ambito di un «trattamenti sanzionatorio» penale.

 

Come più volte affermato dalla giurisprudenza, l’istituto godrebbe di una natura «multiforme»: sostanziale, processuale e «sanzionatoria». Il procedimento comporta – da parte dell’imputato – la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità.

 

In definitiva, il procedimento in questione dà luogo ad una «fase incidentale in cui si svolge un vero e proprio ‘’esperimento trattamentale’’ sulla base di una prognosi di astensione dell’imputato alla commissione di futuri reati, che, in caso di esito positivo, determina l’estinzione del reato».

 

Al fine di tracciare il percorso suddetto, la Suprema Corte richiama le più recenti pronunce della Corte costituzionale, che hanno evidenziato le innegabili connotazioni sanzionatorie della messa alla prova. Queste derivano, peraltro, dalle caratteristiche strutturali della stessa che, da un lato, rappresenta uno strumento di definizione alternativa del procedimento, che si inquadra a buon diritto tra i riti alternativi, e, nel contempo, disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, che conduce, in caso di esito positivo, all’estinzione del reato.

 

Così ricostruiti i due modelli, la Corte ‘‘unisce i puntini’’: se la responsabilità amministrativa da reato riguardante gli enti rientra in un genus diverso da quello penale (tertium genus) e la messa alla prova deve ricondursi ad un «trattamento sanzionatorio» penale – anche sulla base degli «indici rivelatori» valorizzati dalla giurisprudenza costituzionale in alcune precedenti pronunce –, deve ritenersi che l’istituto della messa alla prova non possa essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’art. 25, comma secondo, della Costituzione. L’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un trattamento sanzionatorio, quello della messa alla prova, ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge quali destinatari di esso, in relazione a categorie di illeciti non espressamente previsti dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce corollario.

 

Non possono soccorrere, al fine di ritenere applicabile agli enti l’istituto della messa alla prova, né l’analogia in bonam partem, né tantomeno l’interpretazione estensiva, come invece sostenuto nelle pronunce di merito favorevoli all’applicazione agli enti della messa alla prova.

Interessanti, sul punto, le motivazioni proposte dalla Suprema Corte.

 

L’analogia in bonam partemanche se ritenuta consentita, in certi ambiti, in materia penale –, non può comunque riguardare il caso in esame. Come in precedenza evidenziato, la responsabilità amministrativa degli enti costituisce un tertium genus, che mutua dal sistema penale solo le garanzie che lo assistono; al contrario la messa alla prova vive nell’ambito del sistema punitivo, in termini strettamente penali. I due sistemi sono pertanto eterogenei, e come tali non possono sopportare “l’impianto” di un trattamento sanzionatorio non previsto dalla legge e che, seppur invocato dall’ente, demanderebbe al giudice la descrizione e la modulazione della sanzione, nonché, ancora prima, la determinazione delle ipotesi a cui essa consegue, in evidente violazione dell’art. 25 Cost.

 

Infine, nel caso oggetto di interesse neppure l’interpretazione estensiva può trovare spazio. Tale operazione, infatti, attiene alle ipotesi in cui il risultato interpretativo si mantiene, comunque, all’interno dei possibili significati della disposizione normativa, situazione questa, neppure astrattamente, confacente alla fattispecie in esame.

 

 

5. Conclusioni

 

Con la pronuncia in esame le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente fornito risposta negativa alla possibilità per l’ente di usufruire della sospensione del procedimento con messa alla prova.

Tale soluzione, argomentata secondo lo schema sopra descritto, pare essere ‘‘obbligata’’, almeno in un’ottica de lege lata.

 

L’istituto della messa alla prova non prevede espressamente l’applicazione all’ente, riferendosi genericamente all’indagato o all’imputato; e neppure il disposto dell’art. 34 d.lgs. 231/2001 sembra avere carattere risolutivo, atteso che si riferisce unicamente alle norme dettate dal codice di procedura penale. In altre parole, il principio di legalità della pena si pone quale ostacolo insormontabile.

 

Osservata con oggettivo favore la decisione della Suprema Corte, pare opportuno rendere alcune considerazioni in ottica di lege ferenda.

 

Queste ultime discendono dalle particolari caratteristiche dell’istituto, che sembrano renderlo particolarmente adatto al campo della responsabilità delle imprese, in quanto improntato alla deflazione processuale mediante una spiccata personalizzazione del rimprovero in chiave special – preventiva. Elementi che si riscontrano, analogamente, anche nell’impianto del d.lgs. 231 del 2001, seppur in un’ottica post delictum (art. 12 e 17).

 

Chiaramente tali riflessioni si scontrano con la necessità di concepire un trattamento calibrato sull’ente, e non sulla persona fisica.

Ora più che mai si rende necessaria un’apposita disciplina legislativa, sia sostanziale che processuale, capace di concepire un percorso riparatorio dell’ente strutturato sulle caratteristiche proprie della persona giuridica, nonché diversificato da quanto già richiesto dal decreto 231/2001, così giustificando il premio maggiore dell’estinzione dell’illecito.