La nomina del Commissario giudiziale non impedisce all’ente di patteggiare

di  Federico  Mazzacuva, Dottore di ricerca  in Diritto penale, Università degli Studi di Milano Bicocca

 

 

 

 

Con la sentenza della VI Sezione penale della Corte di Cassazione, n. 40563 del 28 giugno 2022 (Presidente Fidelbo, Relatore Rosati), il Supremo Collegio ha avuto modo di pronunciarsi – tra l’altro – sulla possibilità per l’ente incolpato di accedere al rito speciale dell’applicazione della sanzione amministrativa su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), di cui all’art. 63 del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (di seguito, decreto), anche qualora il giudice, nel ravvisare la ricorrenza in concreto dei presupposti per l’irrogazione della sanzione interdittiva, abbia sostituito quest’ultima con la nomina di un commissario giudiziale, a norma dell’art. 15 del decreto.

 

Prima di soffermarsi sulle motivazioni della pronuncia, qualche premessa pare opportuna per meglio inquadrare il decisum.

 

1. La nomina del commissario giudiziale nell’ambito del sistema delle sanzioni corporative

 

Come noto, la nomina di un commissario giudiziale è configurata dall’art. 15 del decreto non come sanzione amministrativa autonoma (non essendo la stessa indicata nell’art. 9), bensì come misura sostitutiva delle sanzioni interdittive, diretta ad evitare che la condanna dell’ente si risolva in un pregiudizio per la collettività, nelle particolari ipotesi in cui la sanzione inflitta incida sul servizio pubblico o di pubblica necessità svolto dall’ente medesimo, provocandone la cessazione, ovvero qualora l’interruzione dell’attività aziendale determini rilevanti ripercussioni sull’occupazione. È tale il carattere innovativo della norma richiamata che, in dottrina, si parla di un nuovo modello di giustizia, di tipo “manageriale”, orientato non tanto al passato del fatto commesso, quanto piuttosto al futuro delle conseguenze derivanti dalla “risposta” penale alla commissione di un illecito, secondo valutazioni di “sostenibilità” dell’intervento punitivo statuale.

 

Più in generale, rispetto alle sanzioni corporative previste dal d. lgs. n. 231/2001 e al loro rapporto con quelle propriamente penali, occorre muovere dalla premessa tanto ovvia quanto necessaria (punto di partenza, del resto, anche delle motivazioni della Corte Regolatrice nella sentenza in esame) secondo la quale – citando testualmente – trattasi nell’uno e nell’altro caso «di strumenti sanzionatori del tutto simili tra loro», per cui la «diversità di denominazione [è] imposta non da differenze ontologiche tra gli stessi, bensì soltanto dalla natura della responsabilità da reato degli enti, “amministrativa” nel nome ma, nella sostanza, in tutto assimilabile a quella penale».

 

Pertanto, anche e proprio attraverso le sanzioni corporative il legislatore intende evidentemente perseguire il “progetto punitivo” rivolto alle imprese il quale, come noto, ruota attorno all’autoregolamentazione in chiave preventiva (in una parola: compliance), tanto ante quanto post delictum.

 

Da questa prospettiva, si può affermare – in una sintesi estrema di molteplici sfaccettature – che se nella fase della comminatoria edittale assume valenza preminente lo scopo di prevenzione generale sia negativa, ossia di intimidazione-deterrenza, sia positiva, nel senso di orientamento culturale delle politiche imprenditoriali teso a rendere le società vere e proprie “sentinelle della legalità”, in ossequio ai limiti costituzionali alla libertà di iniziativa economica fissati dall’art. 41 della Carta; nella fase di irrogazione giudiziale della sanzione prevale, invece, la funzione “rieducativa”, che si affianca ad una marcata premialità. A tale riguardo, basti qui richiamare gli artt. 12 e 17 d. lgs. n. 231/2001 i quali, nel porre la riparazione al centro del sistema punitivo, assegnando alla stessa un effetto rispettivamente diminuente della sanzione (pecuniaria) ovvero persino sostitutivo della sanzione (interdittiva), testimoniano la “svolta culturale” impressa dal legislatore del 2001.

 

Solo con l’irrogazione di una misura impeditiva si passa ad una prevenzione speciale non più di segno positivo (riorganizzazione), bensì negativo (incapacitazione); in effetti, l’art. 16 riserva l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività a quei soggetti corporativi che, o per loro stessa natura (l’ente “intrinsecamente criminale”) o per la loro “storia” (il “delinquente corporativo abituale”), sono ritenuti “incorreggibili” o “irrecuperabili”.

 

Nel quadro sinora sommariamente descritto si inserisce, appunto, il commissariamento giudiziale il quale, da un lato, richiamando sempre la motivazione, non può «essere annoverato tra le “sanzioni amministrative” applicabili all’ente», bensì rappresenta «una misura del tutto diversa da quelle, per natura e funzioni, alternativa rispetto ad esse nonché precipuamente volta ad evitarne alcuni “effetti collaterali”»; dall’altro, presenta un’evidente componente preventiva, nella misura in cui, ai sensi dell’art. 15, comma 3 del decreto, tra i compiti e i poteri del commissario stabiliti dal giudice, vi deve essere (obbligo, quindi, non mero onere) anche quello di adottare ed attuare in modo efficace un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

 

La sostituzione della misura interdittiva si giustifica, perciò, solo se la prosecuzione dell’attività avviene in una situazione di legalità organizzativa tale da scongiurare il rischio del reiterarsi degli illeciti: in altri termini, l’effetto impeditivo della sanzione interdittiva, scongiurato dalla nomina del commissario, viene compensato dal fine di riorganizzazione “etero-diretta” dell’ente. Tanto più che, da un lato, l’art. 15, comma 4 del decreto prevede la confisca del profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività, così impedendo che l’impresa possa trarre un guadagno da un’operatività che, in assenza di pubblico interesse, sarebbe preclusa; dall’altro, proprio nei confronti dell’ente irrecuperabile, non è possibile la nomina del commissario giudiziale, ai sensi dell’art. 15, comma 3 del decreto.

 

2. Il patteggiamento dell’ente tra negozialità processuale e riparazione

 

Anche la disciplina del patteggiamento degli enti, di cui all’art. 63 del decreto, assegna un ruolo di rilievo alla logica riparativa, che entra così in sinergia con quella negoziale connaturata al rito speciale.

 

Con minore approssimazione, quanto ai presupposti per accedere al rito, l’art. 63, comma 1 del decreto consente l’applicazione all’ente della sanzione negoziata ogniqualvolta il giudizio nei confronti dell’imputato (persona fisica) sia definito o comunque definibile a norma dell’art. 444 del codice di rito nonché in tutti i casi nei quali per l’illecito ex crimine è prevista la sola sanzione pecuniaria.

 

Pertanto, come si ricorda anche nella sentenza in commento, l’ente può accedere al patteggiamento in tre ipotesi:

 

  • qualora anche il processo nei confronti della persona fisica (apicale o subalterno), che ha agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente, si concluda con tale rito speciale;
  • qualora tale processo sia normativamente suscettibile di essere definito secondo quel rito, ma non vi sia accordo tra le parti o, per qualsiasi altra ragione, tale definizione non si realizzi;
  • qualora, a prescindere dalle scelte di rito dell’imputato persona fisica e dall’esito del giudizio nei suoi confronti, l’illecito amministrativo dipendente da reato ascritto all’ente sia punibile con la sola sanzione pecuniaria, non anche con una delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2 del decreto

 

La sussistenza di quest’ultima condizione – ed è proprio questo l’aspetto sul quale si focalizza l’attenzione – può anche essere il risultato:

 

  • o delle condotte riparatorie di cui all’art. 17 del decreto, poste in essere prima della richiesta o perfezionate a seguito della sospensione dell’udienza preliminare attraverso un’applicazione estensiva dell’art. 65 del decreto medesimo (in effetti, è lo stesso dato normativo a riconoscere la “patteggiabilità” dell’illecito punito con sanzione interdittiva temporanea, dal momento che l’art. 63, comma 2 del decreto dispone, per effetto della scelta del rito, la riduzione premiale della sanzione fino a un terzo, da operare «sulla durata della sanzione interdittiva e sull’ammontare della sanzione pecuniaria»);
  • ovvero, come confermato dalla Cassazione nella sentenza in esame, della sostituzione della sanzione interdittiva con il commissariamento giudiziale, secondo quanto previsto dall’art. 15 del decreto.

 

3. La decisione della Suprema Corte

 

Il caso dal quale prende spunto la decisione in commento è presto detto: in un procedimento a carico dell’ente per fatti di corruzione, si perviene ad una sentenza di patteggiamento, che applica all’ente una sanzione pecuniaria, oltre all’interdizione per sei mesi dall’esercizio dell’attività, sostituita con la nomina di un commissario giudiziale. Si tratta, infatti, di società operativa nel settore delle vendite giudiziarie, attività che perciò rientra nella nozione di “pubblico servizio” di cui alla all’art. 15, comma 1, lett. a) del decreto.

 

La difesa della persona giuridica presenta ricorso, dolendosi della condanna al pagamento delle spese processuali disposta con il provvedimento impugnato, ritenuta illegittima per violazione dell’art. 445, comma 1 del codice di rito.

 

La Corte, nel riconoscere l’ingiustificata disparità di trattamento che si verrebbe a creare qualora l’ente, a differenza di quanto avviene per le persone fisiche, fosse condannato al pagamento delle spese del procedimento anche nell’ipotesi di applicazione “patteggiata” di una sanzione pecuniaria (così confermando l’indirizzo interpretativo secondo il quale «la sentenza di applicazione della sanzione pecuniaria su richiesta dell’ente, ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 231 del 2001, non comporta la condanna dell’ente medesimo al pagamento delle spese processuali»: Cass., Sez. III, sent. n. 30610 del 27 maggio 2022), afferma che l’accesso al rito speciale non può essere precluso dal fatto che il Tribunale, pur ritenendo nel caso concreto ricorrenti i presupposti per l’applicazione della sanzione interdittiva, abbia tuttavia sostituito quest’ultima con la nomina del commissario giudiziale, ai sensi dell’art. 15 del decreto. Per giungere a tale esito interpretativo, la Cassazione valorizza la funzione della misura sostitutiva, che – come si è detto – «rappresenta lo strumento specificamente previsto dal legislatore per la prosecuzione dell’attività dell’ente» al posto dell’applicazione della misura incapacitante, che impedirebbe la continuità dell’azienda o, comunque, ne limiterebbe significativamente l’ambito operativo.

 

4. Brevi riflessioni conclusive

 

Come si è tentato di mettere in luce nelle considerazioni sin qui esposte, le questioni sottese alla decisione in esame consentono di toccare con mano uno dei punti nevralgici della disciplina della responsabilità da reato degli enti collettivi, non solo e non tanto perché, come tra l’altro confermato anche da alcuni recenti studi, a fronte di un tasso di ineffettività ancora assai elevato, nella stragrande maggioranza dei casi i procedimenti de societate vengono definiti con sentenze di patteggiamento (si segnalano, da ultimo, la ricerca condotta dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, relativa agli anni 2016-2019, pubblicata su Il Sole 24 Ore del 2 luglio 2021, e quella condotta dall’Università degli Studi di Milano Statale sulla giurisprudenza del Tribunale meneghino nel periodo 2016-2021, pubblicata su Il Sole 24 Ore del 7 giugno 2022); quanto piuttosto per il fatto che l’interpretazione avallata dalla Corte Regolatrice valorizza appieno gli strumenti congegnati dal legislatore per rendere il più possibile “sostenibile” l’intervento punitivo rivolto alle imprese.

 

Più in generale, la preoccupazione circa gli “effetti collaterali” delle sanzioni corporative, unitamente all’esigenza di promuovere la compliance tanto ante quanto post delictum nonché condotte lato sensu riparatorie, che da sempre accomunano le esperienze giuridiche che conoscono regimi di responsabilità (formalmente e/o sostanzialmente) penale delle imprese, rappresentano oggi una delle leve sulle quali si tenta di agire nella prospettiva di una riforma del decreto, a più di vent’anni dalla sua entrata in vigore.

 

Il dibattito è tanto sviluppato quanto noto, per cui, nel rimandare allo stesso (si veda, tra gli interventi più recenti, l’articolo di Eugenio Fusco e Lorenzo Salazar, dal titolo “Accordi extraprocessuali per collaborare meglio con le autorità straniere”, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 10 novembre 2022; nello stesso senso si esprime anche il Bilancio di responsabilità sociale 2019-2020, pubblicato dalla Procura della Repubblica di Milano, § 4.2), basti qui conclusivamente osservare come non conti tanto lo strumento prescelto per valorizzare al meglio la condotta riparatoria dell’ente, quanto piuttosto l’adeguata valorizzazione dell’interesse di fondo che il decreto si prefigge di tutelare, attorno al quale è peraltro costruita la stessa nozione di “colpevolezza” (ovvero, in prospettiva funzionale, di “responsabilità”) del soggetto collettivo. In altri termini, la rinuncia alla punizione della società se, da un lato, può eventualmente comportare anche una collaborazione processuale con l’Autorità giudiziaria procedente; dall’altro, non deve comunque mai prescindere dall’impegno della società medesima a colmare il deficit del modello organizzativo, già previamente adottato, che ha reso possibile la commissione del reato presupposto.