Whistleblowing: le criticità empiriche e l’idea dell’incentivo indennitario-assistenziale

di  Megi Trashaj,  Dottoranda  in  Diritto penale;  Avvocato

 

 

 

L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) il 18 marzo del 2024 ha pubblicato il rapporto istituzionale dal titolo “Monitoraggio sulle criticità nell’applicazione della disciplina whistleblowing”.

Il documento riporta gli esiti di un’indagine diretta a tracciare le problematiche riscontrate da parte di enti pubblici e privati nel dare attuazione agli obblighi in materia di whistleblowing previsti dal Decreto Legislativo n. 24 del 10 marzo 2023.

Il contenuto di questa normativa è stato precedentemente analizzato in diverse pubblicazioni su questo sito (in particolare qui e qui), basti ora ricordare che essa  ha previsto e disciplinato, per diversi enti, l’attivazione e la gestione di canali interni per la segnalazione di comportamenti tenuti in violazione di disposizioni normative nazionali e del diritto dell’Unione europea. Con quest’ultimo approdo, in estrema sintesi, i doveri in materia di whistleblowing sono stati razionalizzati e ampliati sia nel settore pubblico che in quello privato.

L’indagine dell’ANAC è volta a rilevare le criticità emergenti dalla prassi, utili per elaborare futuri orientamenti con riferimento all’uso dei canali interni di segnalazione. Ancor prima, tali dati empirici consentono di tracciare un primo bilancio sull’attuale stato di applicazione della normativa in materia di whistleblowing, da cui partire per provare a prospettare nuove linee di sviluppo dell’intero sistema.

 

 

1. La metodologia del monitoraggio ANAC

L’indagine dell’Autorità è stata condotta in modalità anonima, con questionari online contenenti domande su temi ritenuti di particolare rilevanza.

Con riferimento al settore pubblico, hanno risposto n. 319 enti, di cui 292 tenuti alla nomina del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza – RPCT. Trattasi di diverse amministrazioni: comuni, regioni, province, ministeri, aziende del SSN, università, scuole, autorità amministrative indipendenti, enti pubblici, enti di diritto privato in controllo pubblico.

Guardando al settore privato, all’indagine hanno partecipato n. 213 soggetti, le cui risposte sono state poi analizzate con una differenziazione rispetto al numero dei dipendenti: meno di 50, tra i 50 e i 249, più di 249, in linea con quanto previsto dall’art. 3 del d.lgs. 24/2023.

 

 

2. I dati emersi dal monitoraggio ANAC

 

  • Numero delle segnalazioni e tipologia di segnalanti.

Solo il 17% dei soggetti pubblici (in particolare, aziende del SSN e comuni) e il 30% di quelli privati (in maggioranza enti che impiegano almeno 50 dipendenti) hanno dichiarato di aver ricevuto segnalazioni di illeciti.

Il soffiatore di fischietto in genere è dipendente dell’ente al quale indirizza la segnalazione (71% per il comparto pubblico, 50% per quello privato). Si registrano però anche casi in cui si tratta di un lavoratore autonomo o consulente (17% nel pubblico, 23% nel privato), volontario o tirocinante (11% nel pubblico, 14% nel privato), azionista (13% per il privato) del soggetto giuridico al quale invia la notizia.

 

  • Istituzione del canale interno di segnalazione I soggetti del settore pubblico e i soggetti del settore privato […] attivano, ai sensi del presente articolo, propri canali di segnalazione, che garantiscano, anche tramite il ricorso a strumenti di crittografia, la riservatezza dell’identità della persona segnalante, della persona coinvolta e della persona comunque menzionata nella segnalazione, nonché del contenuto della segnalazione e della relativa documentazione», art. 4, comma 1, d.lgs. 24/2023).

Con riferimento ai soggetti pubblici tenuti alla nomina del RPCT, soltanto il 61% dichiara di aver istituito un canale interno di segnalazione. Rimane dunque alta la percentuale di quelli che non lo hanno creato. Nella maggioranza dei casi si tratta di comuni, ma in questa situazione si trovano anche 3 ministeri, 4 province e 4 regioni (tra quelli intervistati). Le ragioni della carenza sono spiegate variamente: il canale è in fase di istituzione, oppure non vi è una reale necessità per via delle esiguedimensioni dell’ente, o infine mancano risorse e personale da destinare all’istituzione del canale.

Nel settore privato, invece, circa l’85% degli intervistati attesta di aver creato il canale interno. Il che evidenzia un positivo dinamismo del comparto considerato che per molti degli enti (quelli con meno di 50 dipendenti) l’obbligo è entrato formalmente in vigore solo dal 17 dicembre scorso. La gestione, considerata l’ampia discrezionalità concessa sul punto dalla normativa, è stata affidata alla funzione di internal audit (20%), all’OdV (22%), a comitati etici (2%) o ad altre funzioni aziendali quali quella di compliance o HR (39%). Il 17% dei soggetti ha istituito apposito organo collegiale e i casi di affidamento ad un soggetto esterno (avvocato/consulente) sono sporadici.

 

  • Modalità di segnalazione le segnalazioni sono effettuate in forma scritta, anche con modalità informatiche, oppure in forma orale. Le segnalazioni interne in forma orale sono effettuate attraverso linee telefoniche o sistemi di messaggistica vocale ovvero, su richiesta della persona segnalante, mediante un incontro diretto fissato entro un termine ragionevole», art. 4, comma 3, d.lgs. 24/2023).

La maggioranza dei soggetti intervistati ha istituito una piattaforma informatica dedicata alla ricezione di segnalazioni in forma scritta (62% nel settore pubblico, 56% per quello privato). La piattaforma più usata dalle pubbliche amministrazioni è quella messa a disposizione da Transparency International Italia (software GlobaLeaks, libero e open source). Gli enti del settore privato, invece, diversificano le loro scelte. Nella quasi totalità dei casi, si tratta, comunque, di strumenti operanti in cloud che presentano specifiche funzionalità per la tutela della privacy.

Un numero considerevole di soggetti, tuttavia, ha dichiarato di non aver pianificato investimenti in piattaforme digitali a causa dello scarso numero di segnalazioni ricevute in passato (47% nel pubblico, 31% nel privato). Considerazione in parte comprensibile, anche se si scontra con il fatto che il non ricevere segnalazioni di whistleblowing potrebbe proprio dipendere da materiali difficoltà incontrate dal segnalante con riferimento alle modalità di invio.

Chi non si avvale degli applicativi digitali cui si è fatto cenno, utilizza altri strumenti: la posta elettronica ordinaria prevale nel pubblico, quella cartacea nel privato.

Sul fronte delle segnalazioni orali, il 52% degli enti del settore pubblico e il 64% di quelli del privato hanno dichiarato di avvalersi di tale possibilità (o che vi ricorreranno nel breve periodo). La modalità prediletta è, in entrambi i casi, l’incontro con il whistleblower in sede riservata. In alcune ipotesi sono state messe a disposizione linee telefoniche gratuite o sistemi per l’invio di messaggi vocali.  Di solito (più del 70% dei casi) le segnalazioni orali vengono registrate in un verbale e inserite nella piattaforma digitale o in registro separato.

Una contenuta percentuale di segnalazioni (7% nel pubblico, 10% nel privato) è stata trasmessa in modalità improprie e, comunque, la gestione interna dell’ente ha permesso l’inoltro di queste comunicazioni al soggetto deputato alla loro gestione («la segnalazione interna presentata ad un soggetto diverso da quello indicato […] è trasmessa, entro sette giorni dal suo ricevimento, al soggetto competente, dando contestuale notizia della trasmissione alla persona segnalante», art. 4, comma 6, d.lgs. 24/2023).

Con riferimento alle tempistiche della gestione delle segnalazioni («nell’ambito della gestione del canale di segnalazione interna, la persona o l’ufficio interno ovvero il soggetto esterno […] a) rilasciano alla persona segnalante avviso di ricevimento della segnalazione entro sette giorni dalla data di ricezione; […] d) forniscono riscontro alla segnalazione entro tre mesi dalla data dell’avviso di ricevimento o, in mancanza di tale avviso, entro tre mesi dalla scadenza del termine di sette giorni dalla presentazione della segnalazione», art. 5, comma 1, d.lgs. 24/2023»), gli enti non evidenziano particolari criticità (solo il 5% di quelli del settore pubblico e il 7% di quelli del privato hanno dichiarato problematiche). Secondo un’analisi di Assonime «questo dato così esiguo non è tuttavia indicativo di un corretto funzionamento del sistema. Esso, infatti, riflette il numero estremamente ridotto delle segnalazioni ad oggi pervenute».

 

  • Segnalazioni anonimele segnalazioni delle quali non è possibile ricavare l’identità del segnalante sono considerate anonime […], ove circostanziate, sono equiparate da ANAC a segnalazioni ordinarie […]. Gli enti […] che ricevono le segnalazioni […] sono, quindi, tenuti a registrare le segnalazioni anonime ricevute e a conservare la relativa documentazione […]» in modo che si possa rintracciare, eventualmente e successivamente, il segnalante anonimo, Linee Guida ANAC del 2023, p. 32).

Gli enti del settore pubblico che espongono di non aver ricevuto segnalazioni anonime sono il 66%, il 45% in quello privato. I dati, seppur non allarmanti, mostrano comunque una certa ritrosia da parte del soffiatore a rendere immediatamente chiara la propria identità.

In generale, gli enti che hanno ricevuto tali tipi di comunicazioni, le hanno gestite come segnalazioni di whistleblowing, in conformità con le linee guida ANAC: solo una minima percentuale è stata archiviata o considerata notizia “ordinaria”.

 

  • Coordinamento tra i canali previsti dalla normativa speciale e quello exlgs. 24/2023.

La principale criticità che emerge dal rapporto in analisi è quella in materia di coordinamento tra i canali “speciali” e quello “generale” del d.lgs. 24/2023.

Per il settore pubblico, poche sono le considerazioni che possono essere operate a causa del fatto che le domande in proposito non sono state ben comprese da molti degli intervistati, il che però è già un dato di base molto rappresentativo delle problematiche.  Ai quesiti «l’ente è sottoposto a normativa speciale su segnalazioni di illeciti/irregolarità?»; «quale è la normativa speciale a cui si riferisce?”, infatti, gli intervistati hanno risposto erroneamente, mostrando di ritenere normativa “speciale” lo stesso d.lgs. 24/2023, la l. 190/2012, il d.lgs. 231/2001, il d.lgs. 165/2001 o la Direttiva 2019/1937.

Nel settore “privato”, il 24% degli enti (per lo più di medie e grandi dimensioni) ha dichiarato di essere sottoposto a discipline settoriali di segnalazione. Le regole richiamate sono principalmente quelle del settore bancario (d.lgs. 385/1993 cd. TUB), finanziario (d.lgs. 58/1998 cd. TUF), assicurativo (d.lgs. 209/2005 cd. Codice delle assicurazioni private), sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008 cd. TU sicurezza in materia di sicurezza) e antiriciclaggio (d.lgs. 231/2007). Quasi tutti i soggetti sottoposti a normativa speciale (84%) affermano di aver anche attivato canali in rispondenza degli obblighi di settore e molti di essi assicurano di aver previsto forme di coordinamento tra quest’ultimo canale e quello di cui al d.lgs. 24/2023. Purtroppo, però, l’indagine non si estende alla ricostruzione di tali modalità di coordinamento.

 

  • Condivisione del canale interno di segnalazionei comuni diversi dai capoluoghi di provincia possono condividere il canale di segnalazione interna e la relativa gestione. I soggetti del settore privato che hanno impiegato, nell’ultimo anno, una media di lavoratori subordinati, con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato, non superiore a duecentoquarantanove, possono condividere il canale di segnalazione interna e la relativa gestione» art. 4, comma 4, d.lgs. 24/2023; «ad avviso di ANAC, in una logica di semplificazione degli oneri […] si può ritenere che anche le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici di piccole dimensioni possano scegliere di condividere il canale […] per l’individuazione di tali enti appare ragionevole far riferimento alla soglia dimensionale di meno di cinquanta dipendenti….», LLGG ANAC 2023, p. 41).

Guardando al settore pubblico, solo il 27% degli enti avrebbe scelto la tecnica della condivisione del canale. In realtà il dato è poco rappresentativo: le risposte provengono anche da soggetti (quali regione o ministero) che non hanno nemmeno i requisiti normativi per accedere alla condivisione, inoltre l’ANAC, nel decifrare le risposte, assume che i 140 comuni intervistati non siano capoluoghi di provincia e che quindi siano legittimati a una simile procedura.

Anche nel settore privato, emerge un uso sporadico della condivisione: il 58% degli enti in possesso dei requisiti per la condivisione (piccole e medie imprese) non ha operato tale scelta. Singolare poi che, al contrario, alcuni enti di grandi dimensioni, che quindi non potrebbero condividere il canale, abbiano comunque adottato questa modalità.

 

  • Formazione del personale e codici di comportamento.

La maggior parte dei soggetti (il 74% di quelli del settore pubblico, l’88% di quelli del privato) ha pianificato (o sta per procedere in tal senso) iniziative di sensibilizzazione e formazione rivolte ai dipendenti al fine di illustrare le finalità della disciplina in materia di whistleblowing e di spiegare le procedure di segnalazione.

Emerge inoltre che gli enti (54% di quelli del settore pubblico, 72% di quelli del privato) hanno previsto (nei codici di comportamento variamente denominati) forme di responsabilità per i soggetti addetti alla gestione delle segnalazioni nei casi di violazione degli obblighi di riservatezza.

 

 

3. Qualche considerazione generale: complessità del sistema, nuove consapevolezze sociali, attendibilità delle segnalazioni e scarsa applicazione dell’istituto

Come anticipato, i dati diffusi dall’ANAC offrono una buona base per alcune considerazioni generali sull’istituto partendo dalle evidenze empiriche.

Un primo dato negativo è quello relativo (anche in questo settore) alla complessità del panorama normativo. Complessità che porta, per esempio, i dipendenti degli enti pubblici a non saper distinguere in modo corretto tra normativa “speciale” in materia di segnalazione e normativa “generale”, e gli enti privati a usare, pur non avendone i requisiti di legge, i sistemi di segnalazione condivisa.

Un dato positivo: la maggior consapevolezza, da parte dei segnalanti, circa la possibilità e la procedura con la quale “soffiare il fischietto”. A differenza di precedenti rilevazioni che riscontravano un generalizzato uso sbagliato (ad opera dei segnalanti) delle procedure interne di whistleblowing (es. invio di missive alla sede legale), dai recenti dati emerge che le iniziative legislative – e la conseguente formazione erogata all’interno degli enti – stiano quantomeno portando i whistleblower  a fare un uso sempre più corretto dei protocolli di segnalazione.

D’altra parte, però, tornando agli elementi negativi, le segnalazioni anonime – pur non ricorrendo sempre – sono arrivate al 34% degli enti del settore pubblico e al 44% di quelli del settore privato. Dato che, probabilmente, può essere letto in due direzioni: o la notizia di illecito non è sufficientemente ponderata (dunque l’autore, con l’anonimato, tende ad assumersi meno responsabilità possibili), o il segnalante non si sente adeguatamente tutelato. Entrambi elementi che, seppur in diverso modo, propendono per la fragilitàdel sistema.

Più in generale, resta il fatto che l’istituto, pensato quale importante strumento contro la cultura organizzativa deviante (come dimostra la richiesta agli enti di significativi sforzi economici e in termini di personale per la creazione di adeguati segnali di segnalazione), trovi ancora scarsa applicazione.  Si potrebbe obiettare, ragionevolmente, che magari c’è poco da segnalare. Tuttavia, la lettura sulla insoddisfacente “presa” empirica della disciplina è ribadita anche dal commento di Assonime alle rilevazioni pubblicate dall’ANAC e sopra riassunte: «il primo dato significativo che emerge dall’indagine è che l’istituto del whistleblowing è stato scarsamente utilizzato sia nel settore pubblico, sia nel settore privato» (Scheda di sintesi Assonime, p. 1).

 

 

4. C’è spazio per una indennità “ponderata”?

Diverse sono le voci che hanno segnalato, anche in sede di lavori parlamentari, come – per dare vitalità all’azione dei  soffiatori – sarebbe indispensabile valorizzare anche in Italia l’elemento che negli USA (Paese di lunga tradizione nel coinvolgere i privati per la tutela di interessi pubblici) ha determinato una maggior efficacia dell’istituto: l’incentivo alla denuncia.

La mera tutela del segnalante da eventuali ritorsioni (elemento ormai da considerarsi basilare, imprescindibile), si rivela, dati empirici alla mano, poco persuasiva nei confronti dei professionisti dai quali l’ordinamento desidera una “ribellione” (rispetto all’organizzazione che li ospita). Per addivenire alla stessa, invece, tangibili sostegni, di tipo finanziario (ma anche, eventualmente, legati alle singole situazioni occupazionali), potrebbero “fare la differenza”.

Oltre oceano si è affermato il sistema del cd. qui tam per cui il privato che aiuta le autorità a recuperare delle somme dovrebbe ricevere anch’egli un qualche beneficio. È sulla base di quest’idea che la normativa ha consentito la creazione di programmi ad hoc finanziati dalle principali autorità di vigilanza (SEC e CFTC) che assicurano un premio al segnalante commisurandolo alla sanzione applicata all’autore della violazione. Non è un’esagerazione definire questi indennizzi da “da capogiro”. Tra il 2011 e il 2018, la SEC, per esempio, ha versato in favore dei whistleblowers più di 275 milioni di dollari a fronte di informazioni che hanno consentito di recuperare 1,5 miliardi (tra sequestri e sanzioni). Nel corso degli anni successivi, le cifre erogate sono aumentate. Nel 2023 la stessa autorità pagava 279 milioni di dollari per una segnalazione del “valore” di 4 miliardi. Sulla notizia si soffermava il direttore della SEC: «esiste un significativo incentivo per gli informatori a farsi avanti con informazioni accurate su potenziali violazioni della legge».

In Italia, è noto, ha invece prevalso un atteggiamento contrario rispetto a quello che taluno ha definito della cd. “taglia”. Il rifiuto del qui tam è giustificato da ragionevoli motivi di carattere etico-culturale, addotti contro politiche analoghe a quella degli USA. Sintetizzando, si è ritenuto che la segnalazione “pro legalità” (quella del whistleblower) non dovrebbe essere veicolo di conflittualità sociale. Il premio economico, invece, correrebbe il rischio di diventare il principale “movente” di chi riporta le violazioni di superiori e colleghi, con ricadute sui rapporti all’interno delle organizzazioni, dove la persona vivrebbe con paura e sospetto le relazioni con gli altri temendo che taluno, nella speranza di ricevere un tornaconto finanziario, denunci (vere, presunte o false) violazioni a suo carico. Il segnalante, in altri termini, secondo il nostro sistema, deve essere disinteressato nel senso di mai mosso dalla volontà di ottenere un diretto tornaconto individuale a seguito della segnalazione.

Nella ricerca di un nuovo equilibrio tra esigenze di contrasto agli illeciti e necessità di non alimentare il conflitto sociale, si potrebbe allora pensare a una forma di indennità assistenziale – diversa dalla premialità degli Stati Uniti – da erogare al segnalante. L’idea di base, che sicuramente necessita di essere approfondita in altri contesti, è quella di attribuire al segnalante che agevola le attività delle agenzie di controllo, la minor sommatra i) entrate-risparmio che ha garantito allo Stato; ii) entrate personali che ha messo “a rischio” con la sua segnalazione, commisurate facendo riferimento (in particolare) alla retribuzione percepita al momento della segnalazione e allo stato di avanzamento della carriera lavorativa.