Responsabilità 231 e reati ambientali: la Cassazione sul vantaggio e sul MOG

di Mario Iannuzziello,  Assegnista di ricerca in Diritto penale

 

 

 

 

1. Introduzione. Tutela dell’ambiente e sistema 231

 

La responsabilità da reato dell’ente per gli illeciti ambientali – previsti dall’art. 25-undecies del Decreto 231 – interseca due ambiti di prevenzione di particolare complessità su cui si sofferma la III Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27148 del 2023.

 

Da un lato, infatti, si trova la disciplina volta alla tutela dell’ambiente, che è collocata in fonti primarie (quali i Regolamenti UE, il Testo Unico Ambiente e le fattispecie incriminatrici previste nel Codice penale e non solo), e secondarie (come i provvedimenti autorizzativi, AIA, VIA, IPPS, e i decreti ministeriali), vede partecipi più decisori pubblici (legislatore europeo e italiano e diverse pubbliche amministrazioni) e si connota perché soggetta a costanti aggiornamenti, a cui il privato – soggetto individuale o, più spesso, collettivo – deve adeguarsi perché la propria condotta con impatto ambientale continui ad essere lecita ossia resti nell’area del rischio consentito.

 

Dall’altro, poi, vi è l’architettura della responsabilità da reato degli enti nell’ordinamento italiano (d.lgs. n. 231/2001), costruita sul tandem reato-presupposto/illecito amministrativo a questo collegato e sulla colpa di organizzazione, concetto sintetico che identifica la mancata o la carente organizzazione dell’ente per cui è stato possibile commettere l’illecito nell’interesse o nel vantaggio dell’ente stesso, configurando rispettivamente il versante oggettivo e soggettivo della fattispecie corporativa.

 

Nell’economia del Decreto 231 la prevenzione mediante organizzazione assume un ruolo centrale, che si manifesta pienamente nell’art. 6, d.lgs. n. 231/2001. Tale norma, infatti, disciplina i requisiti e le caratteristiche del modello di organizzazione e gestione (MOG) e arriva a concedergli efficacia esimente. Pertanto, le imprese sono incentivate a mappare i rischi della propria attività, a predisporre adeguati assetti preventivi, a vigilare sull’attuazione e sull’osservanza del modello e a sanzionarne le violazioni.

 

Già da queste linee generali sulla tutela dell’ambiente e sul sistema 231 si può desumere che la responsabilità da reato degli enti per gli illeciti contro l’ambiente ha delle peculiarità proprie, che derivano dall’evoluzione delle condizioni di liceità dell’impatto ambientale e si sostanziano nella modifica mediata del provvedimento amministrativo e del disposto legislativo, si riversano sulla possibilità di integrare le fattispecie previste dall’art. 25-undecies d.lgs. n. 231 (Reati ambientali) e, quindi, sull’efficacia e sull’idoneità del modello di organizzazione e gestione.

 

In altri termini, il risk assessment compiuto dal decisore pubblico e le regole di risk management previste nel provvedimento amministrativo, che rendono lecito l’impatto ambientale, devono concretizzarsi nel modello di organizzazione e gestione dell’ente, che deve tener conto – perché sia adeguato – anche dell’evoluzione della disciplina positiva e dei provvedimenti amministrativi susseguenti ai controlli e ai riesami periodici dell’autorità preposta alla protezione dell’ambiente, mentre – perché sia efficacemente attuato – occorre che a tali novazioni segua un aggiornamento delle strutture di compliance dell’ente, fra tutti i compiti e i poteri dell’organismo di vigilanza.

 

Su tali profili interviene la Corte di Cassazione con la sentenza n. 27148 del 2023, che, fra le altre cose, precisa le caratteristiche che con specifico riferimento ai reati ambientali possono rendere il modello di organizzazione idoneo ad esimere l’ente dalla responsabilità 231.

 

 

2. La vicenda processuale

 

La complessa vicenda processuale ha visto imputate due persone fisiche per le contravvenzioni di esercizio non autorizzato di impianti per la ricerca, lo sviluppo e la sperimentazione di nuovi prodotti e processi (art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152/2006) e di attività di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi (art. 256, co. 1 lett. a), d.lgs. n. 152/2006) e un ente per l’illecito amministrativo dipendente da quest’ultimo (art. 25-undecies, co. 2, lett. b, n. 1, d.lgs. n. 231/2001).

 

Nel 2007, l’ente imputato aveva ottenuto l’autorizzazione integrata ambientale (AIA) per la lavorazione ogni anno di 20.000 tonnellate di rifiuti organici per la produzione di fertilizzanti (carcasse animali) e, quasi contestualmente, intraprendeva anche il trattamento di materiale inerte, qualificandolo come attività tecnicamente connessa alla prima e, pertanto, rientrante nel medesimo perimetro di liceità delimitato dall’AIA del 2007, nelle forme della procedura semplificata. Successivamente, l’ente iniziava a trattare anche altri inerti (scorie e ceneri) per un volume di 60.000 tonnellate l’anno, circostanza – come appurato in giudizio – che avrebbe richiesto una nuova AIA in ragione dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento.

 

Correttamente la Cassazione evidenzia che il “il punto focale della valutazione è nel caso di specie stabilire se la porzione di attività svolta […], entrata in AIA […] per effetto del decreto legislativo n. 46/2014 come IPPC 5.3 b.3 (trattamento di scorie e ceneri), fosse «tecnicamente connessa» all’attività principale dell’azione, ossia l’attività IPPC 6.5 («eliminazione e smaltimento delle carcasse animali»)”.

 

Emerge, quindi, che il cuore della vicenda processuale – da cui gemma anche la configurabilità della responsabilità 231 – attiene alla legittimità dell’attività svolta, che determina – per come è costruita la tutela penale dell’ambiente nell’ordinamento italiano – la sua liceità. Dalla sentenza emerge che l’AIA del 2007 ha subito varie modifiche e integrazioni, parallelamente all’evoluzione normativa di settore, fino a quelle del 2014, del 2015 del 2018, che risultano dirimenti per la questione in esame.

 

Infatti, il d.lgs. n. 46/2014, attuando la direttiva 2010/74/UE sulle emissioni industriali, ha innovato profondamente la disciplina sul trattamento degli inerti, assoggettandoli all’IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control) ossia ad un provvedimento autorizzativo ulteriore e diverso dall’AIA. Lo stesso decreto legislativo, poi, ha previsto una disciplina transitoria secondo la quale i gestori di installazioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 46/2014 dovevano adeguarvisi, avviando un nuovo procedimento autorizzatorio per i materiali inerti.

 

L’adeguamento dell’AIA del 2014 così come quello del 2015 e del 2018, tuttavia, ha interessato esclusivamente la produzione di fertilizzanti IPPC e non già il trattamento di scorie e ceneri: l’attività di gestione di inerti, pertanto, risultava ancora qualificata come attività tecnicamente connessa.

 

Invero, il d.lgs. n. 46/2014 ha reso tale attività una lavorazione autonoma e soggetta al regime autorizzativo di cui agli artt. 29-bis e ss. del TUA ossia ad un’ulteriore e diversa AIA, non potendo più rientrare la gestione di scorie e ceneri nell’AIA afferente alla produzione di fertilizzanti.

 

Il versante amministrativo della vicenda, poi, ha coinvolto anche il TAR Brescia e il Consiglio di Stato, che, con la sentenza n. 305/2023, ha statuito che “l’autorizzazione nell’A.I.A. 2015 riferita all’attività R5, comprensiva del trattamento di scorie e di ceneri, non essendo tecnicamente connessa all’attività IPPC 6.5, era soggetta alla disciplina transitoria di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 46 del 2014 e dunque non era più efficace”.

 

La Cassazione condivide tale impostazione e, dopo una complessa istruttoria e un’articolata motivazione, riconosce integrate – come nelle fasi di merito – le contravvenzioni contestate poiché l’esercizio dell’impianto per la sperimentazione e la produzione di nuovi prodotti (cioè quello per la lavorazione degli inerti) era stato effettuato senza la prescritta autorizzazione, rientrante nella nuova disciplina prevista dal d.lgs. n. 46/2014, e, quindi, il reato di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi in quanto l’AIA del 2015 aveva perso efficacia in ragione del medesimo decreto legislativo.

 

 

3. La responsabilità dell’ente per l’illecito ambientale: il vantaggio

 

Alla configurazione del reato di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi (art. 256, co. 1 lett. a), d.lgs. n. 152/2006) segue lo scrutinio sulla sussistenza dell’illecito amministrativo da questo dipendete (art. 25-undecies, co. 2, lett. b, n. 1, d.lgs. n. 231/2001).

 

In limine è da notare che la persona giuridica viene processata esclusivamente per tale illecito, esulando dal catalogo dei reati-presupposto l’altra contravvenzione addebitata alle persone fisiche, cioè l’esercizio non autorizzato di impianti per la ricerca, lo sviluppo e la sperimentazione di nuovi prodotti e processi (art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152/2006).

 

La Cassazione, dunque, appurato il versante oggettivo della fattispecie corporativa, si sofferma sull’interesse e sul vantaggio conseguito dall’ente tramite la commissione dell’illecito 231 e sul modello di organizzazione e gestione dell’ente stesso (infra § 4), ossia sul versante soggettivo della fattispecie corporativa.

 

Sotto il primo profilo, la motivazione ripercorre la giurisprudenza di legittimità su interesse e vantaggio (ex multis, SS.UU. 38343/2014) e sull’alternatività tra i canoni di imputazione soggettiva (inter alia, Cass. Pen., Sez. II, sent. 295/2018) e conferma il giudizio di Appello allorquando la Corte territoriale riconosce sussistere ambedue i canoni di imputazione soggettiva, affermando che “nel caso di specie, il reato commesso […] è reato evidentemente commesso nell’interesse dell’ente che ne ha tratto un altrettanto vantaggio, che consiste nell’aver utilizzato per la gestione dei rifiuti un sito senza adottare alcun presidio ambientale al di fuori di qualsiasi autorizzazione amministrativa, controllo e prestazione di garanzie fideiussorie (richieste per il sito autorizzato)”.

 

Nello specifico la Cassazione individua il vantaggio sotteso all’illecito 231 contestato nel “risparmio di spesa, connesso alla mancata predisposizione dei presidi ambientali e alla mancata presentazione delle, altrettanto necessarie, garanzie finanziarie”.

 

Questa considerazione si rileva particolarmente interessante anche in una prospettiva generale in quanto si sofferma sui caratteri del vantaggio legato alla commissione dell’illecito ambientale dell’ente, riscontrato sia nel risparmio di spesa derivante dall’omissione degli strumenti e delle procedure di tutela ambientale richiesta dall’attività esercitata sia in quello lucrato dalla mancata stipula delle fideiussioni e/o delle assicurazioni per lo specifico rischio ambientale, cioè il risparmio del premio.

 

 

4. La responsabilità dell’ente per l’illecito ambientale: il modello di organizzazione e gestione

 

Il Giudice di legittimità, poi, scrutina la possibile capacità esimente del modello di organizzazione e gestione dell’ente imputato ai sensi dell’art. 6 del Decreto 231.

 

Il Giudice di Appello, invero, aveva già definito “generico e lacunoso” quello presente al tempus commissi delicti, soprattutto con riferimento ai reati ambientali poiché “in merito ai rifiuti si dà atto che gli stessi sono gestiti conformemente alle normative vigenti oppure mediante l’applicazione di rigide procedure di controllo sull’affidabilità dei fornitori. Non è previsto null’altro”. Lo stesso Giudice di merito, poi, evidenzia che in relazione al rischio di inquinamento del suolo, del sottosuolo e delle acque il modello “dà atto di procedure, istruzioni operative, rispetto dei requisiti ambientali etc., ma nulla è previsto in concreto, non sono indicate le misure da adottare e da chi”.

 

Emerge, pertanto, un MOG generico e astratto, in cui l’organismo di vigilanza era soltanto previsto, ma non istituito.

 

Queste evidenze divergono dai criteri stabiliti dall’art. 6 d.lgs. n. 231/2001 e consentono di riconoscere integrato il versante soggettivo della fattispecie corporativa: la sentenza di secondo grado, infatti, dichiara che “nel caso di specie sussiste una “colpa di organizzazione” dell’ente che ha consentito al suo legale rappresentante di commettere il reato, in assenza di procedure e organismi di controllo, a tutto vantaggio dell’ente stesso che ha creato un sito illegale di gestione di rifiuti, con risparmi di spesa evidenti e consistenti”.

 

La Cassazione, aderendo a tale valutazione, aggiunge due considerazioni che si rivelano di sicuro interesse per la prevenzione mediante organizzazione dei reati contro l’ambiente.

 

La prima. È noto che il MOG deve adattarsi alle peculiarità dell’impresa per cui è formulato, deve cioè essere tailored, ma deve considerare anche i rischi specifici legati all’attività d’impresa non solo per genus, ma anche per species. Nel genus reati ambientali, infatti, si compendiano una serie di species che non possono – per struttura normativa e per caratura offensiva – essere prevenuti attraverso un’unica procedura di risk management, ma è necessario che a ciascun rischio ambientale si accompagni una procedura di gestione di quel rischio specifico.

 

La Suprema Corte, nella sentenza che qui ci occupa, sancisce che è “soprattutto in relazione alle peculiarità dei reati ambientali, che determinano la necessità che la mappatura dei rischi sia condotta in modo specifico per ciascun reato, non essendo pienamente configurabile una modalità attuativa unitaria per il gruppo di questi reati, che possono essere commessi, nell’ambito dell’attività d’impresa, con modalità che nella pratica possono risultare estremamente eterogenee e disparate”.

 

La seconda. Affrontando il tema dell’efficacia esimente del modello, la Cassazione stabilisce che “In materia di reati ambientali […] il modello di organizzazione e gestione, per avere efficacia esimente, deve essere adottato in riferimento alla specifica struttura e tipo di attività dell’impresa, prevedendo in modo chiaro e preciso i compiti, le responsabilità individuali e gli strumenti in concreto volti a prevenire la commissione di reati contro l’ambiente; esso, inoltre, deve essere efficacemente attuato, mediante l’istituzione dell’organismo di vigilanza (salvi i casi di cui all’articolo 6, commi 4 e 4-bis, d. lgs. 231/2001) dotato di concreti poteri di controllo e la previsione di sistemi di revisione periodica, che garantiscano la «tenuta» del modello nel tempo”.

 

Il modello adottato dall’ente sottoposto a processo non aveva nessuna di queste caratteristiche tali da renderlo idoneo a prevenire il reato verificatosi in ragione della sua genericità tanto con riferimento ai rischi da gestire quanto ai soggetti a ciò preposti né tantomeno era stato efficacemente attuato, stante la mancata istituzione dell’organismo di vigilanza.

 

All’esito del giudizio di legittimità, l’ente vede confermata la condanna alla sanzione pecuniaria nel massimo edittale previsto dall’illecito amministrativo contestato pari a 250 quote, ciascuna dell’importo di € 500,00, per un totale di € 125.000,00 e la confisca del profitto.

 

 

5. Conclusioni

 

La sentenza n. 27148 del 2023, dunque, evidenzia la stretta connessione tra disciplina extra-penale sulla tutela dell’ambiente e i reati contro l’ambiente: il caso che ci ha occupato, infatti, è originato da un mutamento della normativa di settore avvenuto nel 2014, che ha impattato su un’impresa già operante nell’ambito del trattamento dei rifiuti non pericolosi e dell’esercizio di impianti per la loro trasformazione. Questo ente è stato tratto a giudizio e condannato perché alla novazione legislativa e regolamentare non è corrisposto l’adeguamento delle condizioni di legittimità e delle modalità dell’esercizio dell’attività con impatto ambientale e, quindi, del modello di organizzazione e gestione.

 

Al netto delle carenze del modello emerse in giudizio, è possibile tentare una riflessione ulteriore circa la prevenzione mediante organizzazione dei reati ambientali a partire dalle indicazioni che fornisce la sentenza analizzata.

 

Gli illeciti corporativi previsti dall’art. 25-undecies del Decreto 231 si caratterizzano perché sono esposti a un peculiare fenomeno di modifica mediata, che si potrebbe definire a tre livelli. Il primo attiene alla disciplina extra-penale di tutela dell’ambiente prevista nel Testo Unico Ambiente e nelle altre norme di settore. Il secondo riguarda le incriminazioni interne a questi settori, come l’art. 256 del TUA, e i delitti contro l’ambiente previsti dal Codice penale. Il terzo, infine, si rintraccia nel rinvio che l’art. 25-undecies opera ai reati contro l’ambiente, codicistici ed extra-codicistici.

 

Questo articolato ordito normativo richiede un’altrettanta articolata opera di valutazione e gestione del rischio legato alle attività con impatto ambientale poiché al mutare di una disposizione sulla tutela delle matrici naturali, allocata al primo livello, segue un effetto a cascata sugli altri livelli. Come è emerso dal caso di specie, l’illecito 231 si è configurato perché il d.lgs. n. 46/2014 ha modificato la disciplina IPPS e ciò si è riverberato sulle fattispecie del TUA e, quindi, sul Decreto 231.

 

Pertanto, per prevenire e gestire il rischio ambientale – rectius il rischio-reato sotteso ad ogni ipotesi di reato contro l’ambiente – occorre predisporre un modello organizzativo in grado di individuare gli specifici fattori di rischio e un sistema di presidi atti a prevenirli. Ancora, l’evoluzione della disciplina legislativa ed amministrativa a cui rimandano i reati contro l’ambiente richiede che tale modello sia costantemente aggiornato ed implementato perché sia realmente compliant e, dunque, possa esimere l’ente dalla responsabilità 231.