Mercato dell’arte e finanziamento del terrorismo: il caso del tesoriere di Hezbollah

di  Flavio Di Bonito,  Assegnista di ricerca in Diritto penale

 

 

 

 

1. Background

 

Il 18 aprile 2023, a quarant’anni dall’attentato all’Ambasciata degli Stati Uniti a Beirut, in Libano, la Corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto orientale di New York ha formulato nove capi d’accusa nei confronti di Nazem Said Ahmad, un collezionista d’arte belga-libanese con sede operativa a Beirut, che avrebbe promosso con altri otto soggetti, anch’essi destinatari dell’indictment, un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di plurimi reati commessi attraverso l’utilizzo del mercato dell’arte, con lo scopo ultimo di finanziare Hezbollah, un’organizzazione paramilitare libanese islamista sciita – successivamente divenuta un partito politico – ritenuta terroristica dagli Stati Uniti e considerata responsabile, tra le altre cose, del grave attentato alla sede diplomatica degli Stati Uniti a Beirut.

 

Già nel dicembre 2019, Nazem Said Ahmad, proprio a causa di presunti finanziamenti a favore di Hezbollah, era stato inserito dall’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro americano nella lista dei Specially Designated Nationals and Blocked Persons (SDN) e designato come Specially Designated Global Terrorist (SDGT) ai sensi dell’Executive Order n. 13224.

 

Gli SDGTs sono società o individui che l’OFAC ritiene rappresentino un rischio significativo per la commissione di atti di terrorismo o possano fornire sostegno, servizi o assistenza ad organizzazioni terroristiche. A seguito dell’iscrizione dei soggetti all’interno della SDN list, l’OFAC adotta alcune sanzioni internazionali con l’obiettivo di ‘congelare’ i beni e l’operatività, prevalentemente contrattuale, degli individui o degli enti attinti; sicché viene vietata qualsiasi transazione o negoziazione da parte di cittadini statunitensi, o di soggetti stranieri presenti all’interno degli Stati Uniti, con i SDGTs iscritti nella lista SDN. Tutte le istituzioni finanziare statunitensi ricevono una notifica dell’ordine di blocco da parte dell’OFAC, che provvede alla pubblicazione dell’iscrizione anche nel Federal Register, il registro generale delle agenzie governative.

 

Successivamente alla designazione di Ahmad come SDGT, il 30 ottobre 2020, l’OFAC ha emanato delle linee guida sui potenziali rischi derivanti dal mercato dell’arte (Advisory and Guidance on Potential Sanctions Risks Arising from Dealings in High-Value Artwork), in cui, dopo aver sottolineato le peculiarità del mercato dell’arte, ha dato conto del coinvolgimento del collezionista di Beirut nelle operazioni aventi ad oggetto beni culturali di alto valore, ricordando ai musei, alle gallerie e a tutti gli operatori del mercato che la violazione del divieto di effettuare transazioni con il predetto SDGT avrebbe comportato sanzioni civili irrogate sulla base della semplice responsabilità oggettiva.

 

All’esito della determinazione della Corte distrettuale degli Stati Uniti e della pubblicazione dell’indictment, sempre in data 18 aprile 2023, l’OFAC ha iscritto ed imposto sanzioni nei confronti di altri 20 individui e 32 società riconducibili ad Ahmad. Secondo l’OFAC, che fa proprie le contestazioni dei public prosecutors, il gallerista belga-libanese, per procurare ingenti somme di denaro al partito sciita, avrebbe illecitamente operato sul mercato primario e secondario dell’arte e dei diamanti, allocando parte dei suoi fondi personali in opere di elevatissimo valore, per poi inaugurare una galleria d’arte a Beirut utilizzata come ‘copertura’.

 

 

2. L’indictment: tutte le strade portano a… Beirut

 

Venendo ai nove capi d’accusa, Ahmad avrebbe utilizzato soggetti ed enti ‘schermo’ ad egli riconducibili per mascherare il proprio coinvolgimento all’interno delle transazioni finanziarie effettuate nel mercato primario e secondario dell’arte, nonostante tali transazioni costituissero violazioni delle sanzioni statunitensi e di richiamate leggi federali.

 

In particolare, tra i vari titoli di reato, vengono contestate ad Ahmad le seguenti condotte:

  1. associazione per delinquere finalizzata alla frode ai danni degli Stati Uniti;
  2. associazione per delinquere finalizzata alla violazione dell’IEEPA in relazione all’acquisizione di opere d’arte e transazioni simili, in violazione dei regolamenti sulle sanzioni contro il terrorismo globale;
  3. contrabbando di merci provenienti dagli Stati Uniti, in relazione al commercio di opere d’arte;
  4. importazione illecita di opere d’arte all’interno degli Stati Uniti;
  5. associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro attraverso il mercato dell’arte.

 

Secondo i registri di esportazione e le fatture di vendita acquisite tra gli atti di indagine, il valore totale delle opere d’arte oggetto di importazione ed esportazione illecita – nonché delle operazioni che hanno coinvolto cittadini statunitensi al di fuori degli USA – si attesta su circa 1.230.000,00$, valore che la Corte distrettuale ha ritenuto invero sottostimato, tenuto conto della necessità di Ahmad abbassare i prezzi di mercato delle opere per evadere le imposte; finalità perseguita, come si vedrà diffusamente, sfruttando l’ontologica soggettività del valore e del prezzo delle opere d’arte, opportunamente sottostimate e stoccate presso Foreign-Trade Zones (zone di libero scambio).

 

L’ipotizzato meccanismo criminoso, ripetuto per tutte le compravendite concluse da Ahmad, consiste dall’utilizzo di schermi societari e di intermediari che hanno operato per conto del commerciante d’arte belga-libanese, accusato sia di aver ‘depositato’ i propri fondi personali – successivamente destinati ad Hezbollah – in opere di elevato valore, sia di aver acquistato certificati di provenienza per rivendere opere il cui ricavato era finalizzato al finanziamento del predetto partito libanese.

 

Venendo al piano dell’estensione territoriale dell’operatività della rete intessuta da Ahmad, i prosecutors si sono serviti di una chiara mappatura, realizzata dall’OFAC, del traffico illecito di opere d’arte finalizzate al finanziamento di Hezbollah, in cui è evidente il coinvolgimento dei Paesi più frequentemente utilizzati come transit countries in tema di traffico dei beni culturali, a causa della permissiva regolamentazione doganale.

 

L’indictment, tuttavia, si limita alla contestazione delle condotte che hanno coinvolto gli Stati Uniti, come nel caso di acquisti di quadri ed altre opere presso alcune gallerie d’arte di Chicago, New York, Brooklyn e della California, con cui Ahmad ha, per lo più indirettamente, intrattenuto rapporti commerciali, garantendosi l’anonimato.

 

 

3. Finanziare il terrorismo attraverso il mercato dell’arte?

 

Il caso del finanziamento di Hezbollah – a prescindere dalla discussa natura terroristica del partito libanese, sui cui anche il Parlamento europeo si è espresso in tal senso, con la risoluzione del 10 marzo 2005 – consente di indagare le ragioni per cui il mercato dell’arte presenta una siffatta vulnerabilità alle attività di riciclaggio e conseguente finanziamento del terrorismo internazionale.

 

Il nervo scoperto di questo “mercato grigio” è dato dalla quasi totale assenza di trasparenza nelle transazioni commerciali, a vantaggio di una tradizione culturale che garantisce l’anonimato dei contraenti, cui si accompagna un’ontologica soggettività nella decisione sul valore dell’opera d’arte, il cui prezzo e la cui “stima culturale” diviene all’occorrenza strumentale ad esigenze illecite richieste da reati-presupposto del tipo di quelli contestati ad Ahmad.

 

Nel 2020, con l’obiettivo di combattere l’utilizzo del mercato dell’arte in una logica servente finalità illecite, il Congresso degli Stati Uniti ha introdotto la Section 6110 nell’Anti Money Laundering Act, in cui è stata prevista la modifica del Bank Secrecy Act (BSA) per includere le persone «impegnate nel commercio di antichità» («engaged in the trade of antiquities») nella nozione di “istituto finanziario”. Ciononostante, limitando l’estensione definitoria agli antiquities dealers, la disposizione non copre anche la categoria degli operatori del mercato dell’arte, come gallerie, collezionisti, case d’asta ed alcune istituzioni museali. Pertanto, con la Section 6110(c), il Congresso ha incaricato il Dipartimento del Tesoro di uno studio sul riciclaggio e sul finanziamento del terrorismo attraverso il commercio di opere d’arte, escludendo, questa volta, le antiquities.

 

Le difficoltà interpretative, riscontrate anche in ambito internazionale, circa la definizione di “bene culturale” sono state risolte in maniera funzionale dal Dipartimento del Tesoro, che ha individuato tre diverse nozioni di «artwork», constatando una sostanziale divergenza interna alle stesse agenzie governative. Se da un lato la U.S. Customs and Boarder Protection (CBP) ha aderito ad una nozione ristretta di opera d’arte, in quanto limitata ai beni trasportabili all’estero, la Internal Renevue Service (IRS) ha adottato una nozione ampia dei beni stessi, chiaramente finalizzata alla deducibilità fiscale. Per suo conto, il Dipartimento del Tesoro ha ideato una nozione di «artwork» che potrebbe definirsi funzionale, sicché rientrano in questo concetto tutti quei beni che possono costituire una riserva di valore tale da consentire condotte di riciclaggio.

 

Proprio la natura dell’opera d’arte – combinata con le esigenze di anonimato tipiche di questo tipo di mercato, per cui spesso gli acquirenti e/o i venditori vengono indicati come «collezione privata» – consente all’oggetto della transazione di divenire un “bene invisibile” di elevato costo, facile da trasportare e suscettibile di essere considerato alla stregua di uno strumento finanziario, ideale per trasferire valore.

 

Lo schema delittuoso che classicamente attinge il mercato internazionale dell’arte, inoltre, si serve della poca esperienza e della scarsa conoscenza tecnica in materia di beni culturali degli ufficiali doganali, per cui non viene messo in discussione il valore dell’opera, in quanto del tutto soggettivo, e non vengono svolti controlli sulla provenienza dei beni.

 

 

4. Lo sfruttamento delle zone di libero scambio (ZLS)

 

Un aspetto da prendere in considerazione nel ragionare di traffico internazionale di opere d’arte riguarda le c.d.  zone di libero scambio, il cui equivalente statunitense è rappresentato dalle Foreign-Trade Zones (FTZs). Trattasi di aree geografiche sotto la supervisione delle autorità doganali (CBP nel caso in commento), ma giuridicamente soggette a discipline speciali di favore, con l’obiettivo di incentivare il libero scambio e favorire il commercio internazionale: le merci stoccate presso le ZLS sono considerate tecnicamente in transito. All’interno di queste aree a legislazione speciale, istituite prevalentemente in corrispondenza dei maggiori porti internazionali, sono presenti anche depositi per lo stoccaggio di opere d’arte, descritti dal Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (GAFI) come “porti franchi”. Queste strutture, pur promuovendo la crescita economica e facilitando il commercio internazionale, non consentono una corretta tracciabilità dei trasferimenti di proprietà avvenuti durante il periodo di stoccaggio.

 

Il particolare regime di favore, per cui nelle FTZs non è obbligatorio alcun controllo o raccolta di informazioni da parte dell’autorità doganale sull’identità dei clienti, sulla proprietà del bene o sulla regolarità della transazione, ha fatto sì che nel mondo dell’arte questi depositi siano stati anche definiti dallo stesso GAFI dei veri e propri “buchi neri”, in cui gli oggetti d’arte possono essere conservati in modo anonimo e a tempo indefinito. Di conseguenza, i beni conservati nei depositi d’arte possono essere trasferiti tra i diversi proprietari senza necessità di segnalazione alle autorità doganali o ad altre autorità di regolamentazione, anche in ragione della necessità di preservare l’anonimato in relazione ad oggetti di grande valore. È quanto, infatti, accaduto nel caso dell’acquisto, sul mercato primario, da parte di Ahmad di un’opera da una galleria d’arte di New York: nello scambio di mail effettuato dal collezionista si legge un invito espressamente diretto all’artista, il quale non avrebbe dovuto «menzionare il nome [di Ahmad] alla galleria o a chiunque altro perché preferisce essere anonimo» («should not mention [Ahmad’s] name to the gallery or anyone [because he] prefer[s] to be anonymous»).

 

 

5. Alcune considerazioni conclusive

 

Tra le diverse soluzioni studiate per la riduzione della vulnerabilità delle ZLS e dei depositi d’arte figura il ricorso a best practices da adottarsi da parte dei depositari e delle autorità doganali stesse. L’applicazione di protocolli consistenti nella raccolta di informazioni doganali dettagliate, attraverso la redazione di registri relativi alla transazione, con indicazione del certificato di provenienza, del Paese d’origine, del Paese di destinazione e del valore della merce – la cui componente soggettiva nella determinazione del prezzo resta tuttavia insuperabile – costituisce lo strumento principale individuato dall’OFAC e dal GAFI. Le informazioni doganali raccolte, infine, potrebbero essere accompagnate da ispezioni materiali delle merci conservate nei depositi d’arte presso le ZLS, al fine di verificare la corrispondenza con le informazioni precedentemente raccolte.

 

È pertanto possibile che, una volta attuate le best practices e rafforzata la public-private partnership tra le autorità e i depositari presso le ZLS, le giurisdizioni possano aumentare il livello di protezione attraverso la condivisione delle informazioni tra gli operatori doganali e le unità di intelligence finanziaria, nella consapevolezza che ad una scarsa regolamentazione doganale corrisponde un elevato grado di rischio di riciclaggio e, più in generale, un ottimo incentivo al mercato illecito dell’arte, come avvenuto per le ZLS svizzere, ritenute le aree più idonee a nascondere la proprietà e, per tale motivo, considerate a lungo le migliori transit zones.

 

Nonostante il presunto finanziamento di un’organizzazione terroristica da parte di Ahmad rappresenti sicuramente un caso che “accende i riflettori” sul mercato lecito dell’arte, come ritenuto dal Dipartimento del Tesoro americano, le prove di un nesso tra finanziamento del terrorismo e mercato dell’arte risultano ancora limitate. Come rilevato dall’OFAC, infatti, la difficoltà di collegare il riciclaggio di denaro attraverso opere di alto valore con il finanziamento del terrorismo sembrerebbe derivare dalla differente area geografica in cui si registra l’operatività dei gruppi terroristici, da un lato, e degli attori del mercato dell’arte, dall’altro.

 

È piuttosto infrequente che gli scambi di opere d’arte avvengano in aree controllate da organizzazioni terroristiche o in cui sono attivi gruppi terroristici, in quanto l’integrità dei beni potrebbe essere messa in pericolo dallo uno scarso equilibrio geopolitico del territorio interessato dall’attività terroristica. Trattasi, infatti, di aree che tendono ad essere zone di conflitto, in cui la vendita o il trasferimento di opere di alto valore possono essere piuttosto rischiosi per l’acquirente e il venditore. L’OFAC, al contrario, ritiene altamente probabile che per gli attori e i finanziatori del terrorismo esistano modi più semplici, più rapidi e meno rischiosi per spostare il denaro rispetto al mercato dell’arte, data la distanza dal territorio in cui vivono e il tempo relativamente più lungo necessario per condurre le transazioni sul mercato dell’arte.