La Cassazione torna sull’interesse-vantaggio dell’ente e sulla nozione di ‘produttore giuridico’ dei rifiuti

di  Anna  Pampanin,  Dottoranda  di ricerca in Diritto penale

 

 

1. Introduzione

Con la sentenza n. 42237 del 17 ottobre 2023 (ud. 14 settembre 2023) la Corte di Cassazione è ritornata sull’annosa questione della responsabilità da reato dell’ente per gli illeciti ambientali.

La pronuncia in esame affronta, seppur sinteticamente, numerosi profili attinenti alla materia.

Come si evince dalla lettura della motivazione, la struttura della sentenza si articola secondo due linee direttrici differenti.

Da un lato i giudici si soffermano sull’analisi dei requisiti strutturali del reato in contestazione e, più in generale, della normativa ambientale, dedicando particolare attenzione alla qualificazione dei materiali in imputazione quali rifiuti anziché sottoprodotti e alla nozione di «produttore in senso giuridico» dei rifiuti.

In secondo luogo la pronuncia si preoccupa di (ri)affermare alcuni principi strettamente inerenti alla responsabilità da reato dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001.

Più nel dettaglio la Suprema Corte, con il dichiarato obiettivo di ricondurre entro i tracciati di legittimità i requisiti dell’interesse o vantaggio dell’ente (art. 5 d.lgs. 231/2001) e della possibile capacità esimente del MOG (art. 6 d.lgs. 231/2001), ha affermato che «non è consentito che la motivazione in punto di sussistenza o meno, in capo agli enti imputati, dei modelli di organizzazione e gestione di cui all’art. 6 del d.lgs. 231/2001 e in ordine al requisito dell’interesse o vantaggio in capo agli stessi enti connesso al risparmio di spesa conseguito per effetto del mancato smaltimento regolare del rifiuto possa risolversi in un mero automatismo tra commissione del reato presupposto e responsabilità dell’ente».

La sentenza in commento ribadisce anche per l’ambito dei reati ambientali un concetto ormai consolidato dalla giurisprudenza di legittimità.

La sussistenza dei modelli di organizzazione e gestione di cui all’art. 6 del d. lgs. 231/2001 – la cui adozione ed efficace attuazione limita in modo consistente l’ambito di responsabilità dell’ente – e il requisito dell’interesse o vantaggio dell’ente sono elementi essenziali per ascrivere, sul piano oggettivo, il reato alla persona giuridica, e come tali devono essere valutati e motivati, non essendo ammissibile ricorrere a semplici automatismi.

In tal senso, dunque, va rigorosamente bandita la logica del post hoc: la commissione del reato non equivale a dimostrare che il modello sia inidoneo né che sussista il requisito dell’interesse o vantaggio in capo all’ente.

Giova fin da subito precisare che tra le tante e importanti questioni affrontate dalla pronuncia in esame, ne verranno selezionate alcune ritenute prioritarie alla luce del valore teorico che esprimono.

In primo luogo verrà analizzato il problematico tema della prescrizione del reato presupposto, centrale nell’esame della materia della responsabilità degli enti (l’argomento è già stato trattato in un precedente post).

La premessa su cui si fonda l’intera motivazione della sentenza in esame è, infatti, il riconoscimento dell’intervenuta prescrizione dell’illecito presupposto. Tuttavia, in tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001, anche nel caso in cui il reato presupposto contestato alla persona fisica sia dichiarato estinto per prescrizione, il giudice «deve comunque procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica – quantomeno incidentale – della sussistenza del fatto di reato» (Cass., Sez. III Pen., 30685/2022).

Sulla base di tale assunto la Suprema Corte ha evidenziato come, proprio per la indubbia rilevanza che ciò proietta sulla responsabilità degli enti (che è ‘ancorata’ al reato presupposto), «non sussistano elementi per un’assoluzione nel merito in riferimento ai restanti motivi proposti dai due ricorrenti/persone fisiche»; i giudici hanno così approfondito sia la nozione di «produttore giuridico» del rifiuto, oggetto di ‘recente’ modifica normativa e dettagliatamente ricostruita dalla sentenza in commento, sia il tema della qualificazione dei materiali in imputazione quali «sottoprodotti» anziché rifiuti alla luce della normativa ambientale.

Il presente contributo, seguendo l’ordine della struttura motivazionale, concentrerà l’attenzione solo sulla prima questione afferente alla nozione di «produttore in senso giuridico»; per la trattazione del tema della qualificazione dei materiali oggetto di imputazione si rinvia invece al testo della sentenza, che a sua volta ripropone un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass., Sez. III Pen., n. 38862/2022).

 

 

2. La vicenda processuale: l’intervenuta prescrizione e l’assenza di elementi per una assoluzione nel merito

 

La vicenda processuale vedeva imputate due persone fisiche per il reato di attività di gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi (art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006) e due società per l’illecito amministrativo dipendente da quest’ultimo (art. 25-undecies, comma 2, lett. b), n. 1, d.lgs. 231/2001), in ordine alla condotta di «recupero dei rifiuti» consistita nel «riempimento di un laghetto» sito in una località poco distante dal cantiere.

Il Tribunale di Rimini condannava sia le persone fisiche che le persone giuridiche per gli illeciti ascritti.

Avverso tale sentenza gli imputati e gli enti proponevano, tramite i rispettivi difensori di fiducia, ricorso per cassazione, adducendo plurimi motivi.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il primo motivo di ricorso formulato dall’imputato (A), con il quale lamentava la violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine alla omessa dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato alla data della pronuncia della sentenza di primo grado.

La questione risulta essere meritevole d’interesse perché tange, almeno indirettamente, il dibattito –ancora oggi (almeno in parte) esistente – circa la natura istantanea o permanente del reato di illecita gestione dei rifiuti di cui all’art. 256, comma 1, del Testo Unico Ambientale.

Infatti, il momento consumativo del reato relativo al ‘ciclo dei rifiuti’ varia in funzione della natura dell’attività svolta.

La problematica è stata al centro di numerose pronunce della Suprema Corte, la quale solo in tempi recenti sembra aver adottato una soluzione interpretativa coerente: in particolare, secondo la Corte il reato di cui all’art. 256, comma 1, T.U.A. «ha natura di reato istantaneo, perfezionandosi nel luogo e nel momento in cui si realizzano le singole condotte tipiche. Tuttavia, stante la eventuale ripetitività della condotta, esso si potrebbe configurare quale reato eventualmente abituale, potendosi risolvere tanto in un’unica condotta idonea a configurarlo, quanto nella reiterazione di più condotte omogenee che diano vita al medesimo titolo di reato» (Cass., Sez. III Pen., n. 43590/2022).

Conseguentemente, in tale ultimo caso, il termine di prescrizione decorrerà dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico.

Ora, con riferimento al caso di specie, si rendono necessarie ulteriori considerazioni.  La sentenza in esame, molto sintetica e a tratti poco chiara, nulla dice sul punto.  Da un lato non consente di ricostruire precisamente la dinamica dei fatti, omettendo una puntuale descrizione degli stessi; dall’altro non si pronuncia espressamente sul tema della natura(istantanea, permanente o eventualmente abituale) del reato in contestazione, limitandosi ad affermare la fondatezza del primo motivo di ricorso, seppur per motivi parzialmente differenti da quelli addotti dal ricorrente.

Mentre quest’ultimo sosteneva la natura istantanea del reato ascrittogli, i giudici si sono limitati a sottolineare come risultasse «evidente», dal testo stesso della sentenza impugnata, che «alla data dei 10 luglio 2017, epoca di prelevamento dei campioni dei rifiuti, il reato contestato fosse perfezionato mediante il riempimento del ‘‘laghetto’’»; pertanto, «alla data di pronuncia della sentenza di primo grado (02/11/2022) il termine massimo di prescrizione era integralmente trascorso, non risultando, dagli atti a disposizione della Corte, periodi di sospensione del corso della prescrizione».

Per tali ragioni la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio nei confronti del (A) e, in estensione ex art. 587 c.p.p., di (B), essendo il reato estinto per prescrizione.

Come già evidenziato in premessa, il Supremo Collegio ha comunque provveduto ad un’analisi delle restanti doglianze, non sussistendo elementi per un’assoluzione nel merito in riferimento ai successivi motivi proposti dai due ricorrenti/persone fisiche. Sulla base di tale considerazione la sentenza in commento affronta e analizza anche gli ulteriori punti della contestazione.

I paragrafi seguenti si articolano e si sviluppano nel tentativo di fornire una ricognizione circa l’attuale stato giurisprudenziale, dottrinale e normativo in materia di responsabilità da reato dell’ente per gli illeciti ambientali, traendo spunto dallo scarno contenuto offerto dalla sentenza in esame.

 

 

3. Interesse e vantaggio dell’ente nei reati ambientali: il risparmio dei costi

 

Le nozioni di interesse e vantaggio, in qualità di criteri oggettivi di imputazione della responsabilità dell’ente, rappresentano elementi centrali nella disciplina del d.lgs. 231/2001.

Storicamente l’esatta perimetrazione di suddetti criteri è stata oggetto di ampio dibattito, portato dall’ambito dottrinale al vaglio della giurisprudenza della Corte di Cassazione.

La questione di maggior rilievo ha riguardato, come è noto, la compatibilità delle nozioni di interesse e vantaggio con i reati colposi (di evento), specialmente a seguito dell’implementazione del catalogo dei reati di cui al d.lgs. 231/2001 con i delitti di omicidio e lesioni colpose commessi in violazione della normativa sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Più di recente, anche alla luce dell’attuale peso politico-sociale che la tematica ambientale ha assunto nel panorama nazionale e internazionale, la giurisprudenza nomofilattica si è espressa in merito all’atteggiarsi dei criteri di imputazione nell’ambito dei reati ambientali, delineando la definizione di interesse e vantaggio ai fini di una ‘responsabilità ambientale’ dell’impresa.

In particolare, si è sancito che i criteri dell’interesse o vantaggio ben possono adattarsi anche ai reati ambientali colposiche, essendo strutturati come reati di mera condotta, vedranno l’interesse e il vantaggio individuati sia nel risparmio economico determinato dalla mancata adozione di impianti dispositivi e procedure idonee a prevenire il compimento del reato, sia nella mancata o scadente manutenzione e gestione di tali impianti, sottratti all’attività produttiva (Cass., Sez. III Pen., n. 3157/2020).

Con riferimento al MOG, affinché questo possa dirsi adeguato in una valutazione ex post, appare necessario che anche nell’ambito dei reati ambientali vengano adottate procedure specifiche simili a quelle previste in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, idonee a rendere efficace la logica prevenzionistica nella quale il modello si muove.

Raggiunta tale consapevolezza, affermata dunque la compatibilità dei criteri dell’interesse o vantaggio anche per i reati ambientali contenuti nel ‘catalogo’ del d.lgs. 231/2001, il giudice ha l’obbligo di valutare in concreto il punto. In altre parole, è necessario accertare se l’omissione in termini di predisposizione di strumenti finalizzati alla prevenzione del reato risponda ex ante ad un interesse della società o consenta di conseguire un vantaggio. Calando tali considerazioni nel caso di specie, come evidenziato dai ricorrenti, il giudice di merito avrebbe dovuto apprezzare anche l’occasionalità della violazione, non compatibile con un disegno aziendale di risparmio costi.

Dopo aver chiarito l’obbligo di motivazione nei termini sopra espressi, la pronuncia in esame non approfondisce ulteriormente la tematica; di conseguenza, ai fini della presente analisi, le parole della Suprema Corte fungono da impulso per una riflessione più ampia, che interessa a 360 gradi la tematica della responsabilità da reato dell’ente per gli illeciti ambientali.

 

 

4. La nozione di ‘produttore giuridico’ dei rifiuti

 

Come si è anticipato, la pronuncia in analisi si sofferma anche sulla nozione di «produttore in senso giuridico» dei rifiuti. La questione concerne l’individuazione del soggetto qualificabile come «produttore» ai sensi dell’art. 183, comma 1, del d. lgs. 152/2006 nel caso di rifiuti generati da lavori o servizi affidati in appalto. Detto in altri termini, ci si chiede chi tra committente e appaltatore assume una posizione di garanzia rispetto alle modalità di gestione di tali rifiuti e debba rispondere nei casi di illecito traporto/deposito/smaltimento degli stessi.

Sulla questione, già affrontata in precedenti occasioni dalla Suprema Corte (Cass., Sez. III Pen., 13 gennaio 2020, n. 847), è tornata a pronunciarsi anche la sentenza in commento.

Infatti, con il secondo motivo di ricorso l’imputato (A) lamentava la violazione di legge e la mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta assenza di qualsiasi propria responsabilità, avendo egli conferito la totale gestione delle terre da scavo del cantiere alla società del (B) (autorizzata al trasporto dei rifiuti CER 170504) mediante contratto di appalto.

Secondo la ricostruzione del ricorrente, nel caso di specie non potrebbe trovare applicazione la nozione di «produttore in senso giuridico» dei rifiuti introdotta per effetto del d.l. 92/2015, in considerazione del fatto che con il d.m. 120/2017 il legislatore ha approntato, specificatamente per le terre e le rocce da scavo, una definizione autonoma di produttore.

Prima di esaminare nel dettaglio i princìpi elaborati (o meglio, ribaditi) in sentenza, va però segnalato che la problematica «qualificatoria» di cui si discute trae origine da un dato normativo che presenta alcuni margini di incertezza: il testo oggi vigente dell’art. 183, comma 1, lett. f) del d.lgs. 152/2006 (anche detto Testo Unico ambientale – T.U.A) prevede infatti che il produttore iniziale dei rifiuti vada individuato sia nel «soggetto la cui attività produce rifiuti» (produttore materiale) sia nel «soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione» (produttore giuridico), senza però meglio chiarire tale concetto di «riferibilità giuridica».

La sentenza risulta essere particolarmente esaustiva sul punto.

I giudici hanno affermato che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente (A), nel caso di specie debba trovare applicazione la nozione di produttore di rifiuti come comprendente anche «il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione», ossia il c.d. «produttore in senso giuridico» di rifiuti.

L’art. 1 della legge n. 125 del 2015 ha infatti esteso la nozione di «produttore di rifiuti» di cui all’art. 183, comma 1, lettera t), del d.lgs. n. 152 del 2006 anche al produttore «giuridico» e non solo materiale del residuo da destinare allo smaltimento o al recupero.

Ne consegue (Cass., Sez. III Pen., n. 39952/2019) che per «produttore» di rifiuti deve intendersi non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi configurabile, quale titolare di una posizione di garanzia, l’obbligo di provvedere allo smaltimento di detti rifiuti nei modi prescritti, sicché la responsabilità in ordine al complessivo iter di smaltimento o recupero, secondo quanto previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 183, comma 1, lettera f), e 188, comma 1, del d.lgs. n. 152 dei 2006, rimane congiuntamente in capo al produttore giuridico, al produttore materiale, al detentore dei rifiuti e a chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (c.d. «nuovo produttore»).

 

 

5. Considerazioni conclusive

 

Le considerazioni che emergono dalla pronuncia in esame sono duplici.

Innanzitutto, ancora una volta è agevole considerare come la responsabilità da reato dell’ente per gli illeciti ambientali intersechi due distinti ambiti di prevenzione.

Da un lato, infatti, si trova la disciplina volta alla tutela dell’ambiente, caratterizzata da una pluralità di fonti – primarie e secondarie – sottoposte ad un costante aggiornamento, che spesso ne rende complicata la ricostruzione.

Dall’altro, poi, vi è l’architettura della responsabilità da reato degli enti nell’ordinamento italiano ai sensi del d.lgs. 231/2001, «costruita sul tandem reato-presupposto/illecito amministrativo a questo collegato» e rispondente ad una logica propria.

La seconda considerazione che emerge concerne invece una ‘mancata occasione’. Pur pronunciandosi in senso ‘garantista’, e ribadendo alcuni principi fondamentali sul tema della responsabilità degli enti nell’ambito degli illeciti ambientali, la Corte sembra aver perso una buona opportunità per fare chiarezza su un tema tanto delicato quanto complicato e, allo stato, confusionario.

Proprio alla luce dell’importanza che la normativa ambientale progressivamente assume all’interno dell’ordinamento nazionale, ma anche e soprattutto europeo, ogni occasione è fondamentale per decifrare e ‘riempire di significato’ una disciplina che, si sa, è alquanto complicata in ragione del carattere estremamente tecnico che la connota.

Pur scorgendosi un progressivo sforzo nella definizione giurisprudenziale della materia ambientale (in ambito della responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001), e potendo pertanto cominciare a delineare qualche ‘punto fermo’ che aiuti ad orientarsi, si registra pur sempre una generica assenza di statuizioni logiche e coerenti nella materia oggetto dell’odierno approfondimento.