Responsabilità da reato dell’ente e illeciti ambientali: nessuna riduzione di pena se l’illecito è di pericolo astratto

di     Anna   Pampanin,   Dottoranda  in  Diritto  penale

 

 

 

1. Introduzione

Con la sentenza n. 50770 del 20 dicembre 2023, la Terza sezione penale della Corte di Cassazione si è nuovamente confrontata con l’annosa questione della responsabilità amministrativa dell’ente per gli illeciti ambientali.

Tra i diversi aspetti affrontati dalla pronuncia in esame, di particolare interesse si rivelano alcuni profili attinenti al trattamento sanzionatorio disciplinato dal d.lgs. 231/2001. In particolare, la Suprema Corte si è soffermata sulle condizioni di applicazione dell’art. 12 del decreto e, più nello specifico, sulla riduzione della sanzione per particolare tenuità del danno patrimoniale ai sensi dell’art. 12, co. 1, lett. b) e sulla riduzione della sanzione prevista qualora, post factum, sia stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi ai sensi dell’art. 12, co. 2, lett. b).

La pronuncia in esame è meritevole d’interesse perché delinea e richiama due principi differenti, fondamentali nella struttura della responsabilità amministrativa da reato dell’ente:

  1. da un lato, ha affermato che l’attenuante di cui all’art. 12, co. 1, lett. b), non può che trovare applicazione per quei reati che presuppongono un danno patrimoniale e non anche per quelli, come nel caso in esame, che si esauriscono in violazioni ‘formali’ e di pericolo astratto, in cui vengono punite determinate condotte indipendentemente e a prescindere dalla produzione di un danno, patrimoniale e non patrimoniale;
  1. in secondo luogo, ha chiarito che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 12, co. 2, lett. b), la mera ‘adozione’ del MOGnon è sufficiente a far scattare l’attenuante; ed invero, come specificamente richiesto dalla lettera della norma, è necessario che tale modello sia ‘reso operativo’ e che sia anche idoneo a prevenire la commissione di reati della stessa specie.
2. La vicenda giudiziaria

Nel caso che ha interessato la Corte, la società era stata condannata nel merito alla sanzione di Euro 77.400,00, per l’illecito di cui all’ art. 25-undecies, co. 2, d.lgs. 231/2001, in relazione al reato presupposto di cui all’ art. 256, co. 1 e 2, d.lgs. n. 152/2006. Secondo la ricostruzione del Tribunale il presidente del C.d.A. avrebbe di fatto consentito nell’interesse e a vantaggio dell’ente, che gli impianti di depurazione effettuassero uno smaltimento illecito dei fanghi di depurazione prodotti (effettuato mediante diluizione dei fanghi – rifiuti speciali – con le acque reflue di scarico e/o prelevando e sversando detti fanghi direttamente nel corpo idrico superficiale), valutabile nell’ordine di centinaia di tonnellate, diluendo con i medesimi le acque reflue di scarico ovvero sversando tali fanghi direttamente nei corsi d’acqua.

Avverso tale sentenza l’ente proponeva, tramite il proprio difensore di fiducia, ricorso per cassazione deducendo quattro distinti motivi.

In questa sede verrà analizzato unicamente il quarto motivo, che si compone di due sotto-motivi, con i quali il ricorrente lamentava la violazione di legge e inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità in riferimento agli artt. 6, 11, 12 e 25-undecies del d.lgs. 231/2001, nonché il vizio di motivazione.

In base all’ipotesi difensiva il Tribunale avrebbe applicato la sanzione pecuniaria di Euro 77.400,00 nonostante la società avesse adottato ed efficacemente attuato, dopo che si era verificato il reato presupposto da cui dipende l’illecito amministrativo contestato, il modello di organizzazione e gestione di cui all’art. 6 del d.lgs. 231/2001 in virtù del quale «avrebbe avuto diritto alla riduzione della sanzione pecuniaria irrogata ai sensi dell’art. 12, co. 2, lett. b) del suddetto decreto».

Il giudice di merito avrebbe (erroneamente) ritenuto tale modello «inadeguato» sulla base di «una serie di valutazioni (quali la genericità delle previsioni, la mancanza di un organo di vigilanza tecnico, la mancanza di comunicazione ‘‘dal basso’’, la mancata indicazione di quale avrebbe dovuto essere l’attività di vigilanza) del tutto smentite dal tenore letterale del modello». Di conseguenza, inopportunamente non avrebbe applicato l’attenuante di cui si discute.

In secondo luogo, sempre secondo quanto prospettato dal ricorrente, Il Tribunale avrebbe dovuto applicare anche l’attenuante di cui all’art. 12, co. 1, lett. b) del decreto, ai sensi del quale «la sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a lire duecento milioni se il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità».

La Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo in parte infondato e in parte inammissibile.

Dopo aver effettuato alcune brevi premesse sul meccanismo sanzionatorio previsto dal d.lgs. 231/2001, ed aver precisato che ai sensi dell’art. 10 del suddetto decreto «la sanzione pecuniaria viene applicata per quote» e che ai sensi dell’art. 11 « nella commisurazione della sanzione pecuniaria il giudice determina il numero delle quote tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti», i giudici hanno trattato distintamente i profili evidenziati dalla difesa.

3. L’adozione e l’operatività post factum del MOG

In primo luogo, la Suprema Corte si è soffermata sull’applicabilità dell’attenuante disciplinata dall’art. 12, co. 2, lett. b), d.lgs. 231/2001.

Come si evince dalla lettura della motivazione, i giudici hanno ritenuto opportuno premettere che ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 231/2001, tra le condizioni di esclusione della responsabilità dell’ente, rectius della colpa di organizzazionedello stesso, «vi sono l’avere (co. 1, lett. a) adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, nonché aver affidato (lettera b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo».

Qualora invece, post factum, sia stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, ai sensi dell’art. 12, co. 2, lett. b) del decreto, è prevista una diminuzione della pena da un terzo alla metà.

Tuttavia, il Collegio ha osservato come già in precedenti occasioni la stessa Corte abbia chiarito come «la ‘‘mera’’ adozione del MOG non sia sufficiente a far scattare l’attenuante»; ed invero, come specificatamente richiesto dalla lettera della norma, «è necessario che tale modello sia ‘‘reso operativo’’ e che sia anche ‘‘idoneo’’ a prevenire la commissione di reati della stessa specie».

Nel modello adottato dalla società, tra gli elementi critici messi in luce dalla autorità giudiziaria, spiccava «l’assenza di un’efficace sistema di comunicazione dal basso» e la «mancata nomina dell’Organismo di vigilanza», neppure contemplato all’interno dell’organigramma funzionale.

È nuovamente ribadito, dunque, l’importante principio, ormai consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui «non sussiste alcun automatismo tra l’adozione del modello e la concessione dell’attenuante, che è invece subordinata, come evidenziato anche in dottrina, ad un giudizio di natura fattuale, essendo il giudice tenuto a verificare se la lettera della norma sia stata rispettata specificatamente e nel suo complesso». Giudizio fattuale che, nel caso di specie, il ricorrente chiedeva alla Suprema Corte di ripetere al fine di vagliare l’effettiva idoneità del modello.

Una simile doglianza è ritenuta, tuttavia, inammissibile. Come puntualmente sottolineato dal Collegio, l’unica censura teoricamente praticabile – nella vicenda in esame – in sede di legittimità è quella del vizio di motivazione, che attiene però – come è noto – alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della stessa.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, la motivazione addotta dal Tribunale per ritenere insussistenti i presupposti della concessione dell’attenuante in parola non supera certamente i confini della ‘evidente illogicità’. La circostanza che il ricorrente abbia, di fatto, sollecitato la Corte allo svolgimento di una autonoma ricostruzione, mediante l’adozione di nuovi e diversi parametri valutativi dei fatti, è di per sé bastevole a far ritenere il motivo di ricorso inammissibile.

4. Il danno patrimoniale di particolare tenuità

La seconda questione affrontata dalla Corte concerne l’attenuante disciplinata dall’art. 12, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 231/2001.

I giudici hanno ritenuto suddetto profilo, così come prospettato dalle doglianze difensive, manifestamente infondato.

Nello specifico, e qui emerge il carattere innovativo della pronuncia in esame, la Suprema Corte ha affermato che l’attenuante in parola non può che «trovare applicazione a quei reati che presuppongono un danno patrimoniale e non anche a quelli, come nel caso in esame, che si esauriscono in violazioni ‘‘formali’’ e di pericolo astratto, in cui vengono punite determinate condotte indipendentemente e a prescindere dalla produzione di un danno, patrimoniale e non patrimoniale».

Non esiste, in definitiva, la possibilità di applicare la riduzione della sanzione a carico della società colpita dal decreto se il reato a monte è di pericolo astratto, come nel caso degli illeciti ambientali.

Una statuizione che sembra destinata ad assumere notevole importanza nella prassi giurisprudenziale inerente alla responsabilità dell’ente, in un contesto che vede progressivamente crescere le contestazioni per illeciti ambientali, notoriamente strutturati sull’archetipo di pericolo astratto.

5. Considerazioni conclusive

Seguendo la struttura della presente analisi, le considerazioni conclusive che possono tracciarsi sono duplici.

Da un lato vi è la (ri)affermazione di un principio già noto, più volte sancito, che rifiuta qualsiasi tipo di automatismo tra l’adozione del modello e la concessione dell’attenuante. Il Modello Organizzativo deve essere ‘reso operativo’, non solo attraverso l’adozione dello stesso e tramite la nomina dell’Organismo di Vigilanza, ma elemento imprescindibile è la concreta (appunto) operatività del Modello all’interno della realtà societaria. Solo la contestuale adozione, applicazione concreta e nomina dell’Organismo di Vigilanza permette il riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 12, co. 1, lett. b).

Richiamando la giurisprudenza di legittimità precedente, un Modello «può ritenersi operativo solo nel caso in cui vengano individuate le c.d. zone sensibili, ovvero quelle più esposte al rischio di reati e vengano istituiti processi gestionali delle stesse, vengano adottate procedure e protocolli operativi finalizzati a vincolare le condotte di chi opera nelle zone più a rischio di commissione di illeciti» (Cass. pen., sez. IV, n. 38025/2022). Emerge, ancora una volta, quella che potremmo definire la ‘non invincibile protezione dei Modelli organizzativi’.

Effettuate tali premesse, si ritiene opportuno concludere con alcune ulteriori precisazioni.

La sentenza in esame, seppur apprezzabile per la coerenza logico-argomentativa della motivazione, offre l’occasione per ritornare su un tema ormai ricorrente in materia di responsabilità da reato degli enti: il difficile rapporto esistente traMOG e reati ambientali.

Nella giurisprudenza di legittimità è infatti frequente imbattersi in sentenze in cui la Corte dichiara inadeguato un modello in riferimento alla commissione di un illecito, o ritiene che lo stesso non sia stato effettivamente reso operativo. Al contempo, però, si registra l’assenza di indicazioni normative volte a fissare uno standard per la redazione e l’esecuzione dei MOG. Tale ultima considerazione, valevole in realtà per tutti i ‘reati presupposto’ del decreto 231/2001, risulta ancora più gravosa nell’ambito degli illeciti ambientali, laddove l’assenza di parametri e criteri normativi volti alla costruzione e all’operatività di un modello idoneo alla prevenzione dei reati, sommata alle caratteristiche di tale tipologia di illeciti (prima tra tutte la disomogeneità), delinea un sistema incerto, all’interno del quale è difficile orientarsi.

Le peculiarità di questa categoria di reati comportano, pertanto, un’estrema difficoltà per le aziende nella adozione di un modello che risulti idoneo (al vaglio della giurisprudenza) a prevenire tale tipologia di illeciti. Nonostante la riconosciuta eterogeneità che caratterizza le modalità commissive dei diversi reati ambientali non esiste, ad oggi, un contenuto minimo per i modelli organizzativi né per la loro concreta attuazione.

La vicenda in parola, pertanto, conferma le evidenti le difficoltà e le incertezze che le imprese devono fronteggiare qualora vogliano adottare proficuamente un MOG idoneo a contrastare la commissione di reati ambientali.

Vi è infine l’affermata impossibilità di applicare l’attenuante della particolare tenuità del danno nel caso di reati di pericolo astratto. Riportando testualmente le parole della Corte, come si è già anticipato in premessa, la circostanza in esame «non può che trovare applicazione per quei reati che presuppongono un danno patrimoniale e non anche per quelli, come nel caso in esame, che si esauriscono in violazioni ‘formali’ e di pericolo astratto».

Non si tratta dunque di una statuizione di poco conto, soprattutto in ragione del sempre maggior rilievo che l’illecito ambientale riveste nella prassi giurisprudenziale, anche nei confronti dell’ente.

Le perplessità che emergono in relazione alla pronuncia in commento vertono sull’interpretazione del concetto di ‘danno patrimoniale’, che la Corte ha scelto di limitare ad un significato strettamente letterale. Più nel dettaglio, affermando che la circostanza attenuante di cui all’art. 12, co. 1, lett. b) possa trovare applicazione solo qualora sussista un danno patrimoniale quale presupposto del reato, la Corte di Cassazione sembra implicitamente negare la possibilità di configurare un ‘danno’ qualificato dal pericolo.

A rigor di logica, provando ad interpretare quanto sancito dai giudici di legittimità – che spendono pochissime righe sul punto –, per poter riconoscere la ‘particolare tenuità’ del danno patrimoniale, bisogna preliminarmente accertare che un danno, effettivamente, vi sia.

Come è noto, tuttavia, alcune tipologie di illecito ambientale rappresentano il prototipo della categoria dei reati di pericolo astratto, in quanto si esauriscono, come accade nel caso di specie, nella ‘mera’ violazione formale di determinate condotte indipendentemente e a prescindere dalla produzione di un danno, patrimoniale e non patrimoniale, ed esprimendo pertanto una ‘semplice’ offensività potenziale.

Più nello specifico, i reati ambientali si caratterizzano per la diffusività del danno, presentando quindi un doppio livello di indeterminatezza, sia in relazione al raggio d’azione degli effetti sia con riguardo alle persone offese.

In questi casi vi è dunque una impossibilità di individuare e determinare un danno (reale), se non in una forma potenziale (quale manifestazione di offesa al bene giuridico) e, a cascata, un’impossibilità di configurare una circostanza attenuante che un tale danno presupponga.

Non è questa la sede per analizzare le differenze strutturali tra gli illeciti di danno e di pericolo (astratto e concreto):, ciò che si vuole sottolineare sono le conseguenze che una simile statuizione avrà sull’intero ‘sistema 231’, giacché incide sulla logica punitivo-premiale che lo permea., In particolare, si crea uno spartiacque sulla base del tipo di illecito presupposto, a secondo che questo appartenga alla categoria dei reati di pericolo astratto o meno, per cui nel primo caso l’attenuante della particolare tenuità del danno sarà esclusa in radice.