La Cassazione sul profitto confiscabile all’ente nel caso di condotte di riciclaggio commesse dai vertici nell’interesse della banca

di  Giuseppe Natale,  Dottorando  di ricerca in Diritto penale

 

 

 

1. Introduzione

 

Con la sentenza n. 30656, depositata il 14 luglio 2023, la Corte di Cassazione, in sede cautelare, è tornata a pronunciarsi sull’individuazione del profitto confiscabile all’ente, con specifico riferimento al reato di riciclaggio.

 

In generale, il tema del quantum e del quid confiscabile è notoriamente delicato e presenta delle implicazioni teoriche di fondo non sempre in linea nelle diverse pronunce di legittimità.

 

La questione, nel suo complesso, ha dei significativi risvolti pratici. La definizione del profitto confiscabile, infatti, svolge un ruolo centrale nel determinare la concreta portata del provvedimento ablatorio, giacché è proprio dal risultato delle modalità di individuazione e quantificazione del profitto che dipende l’effetto (ripristinatorio) di neutralizzazione dell’arricchimento illecito o quello invece (punitivo) di depauperamento del patrimonio del destinatario.

 

Il problema sorge dall’assenza nel panorama normativo di un’espressa definizione del sintagma ‘profitto’, e dunque di indicazioni che permettano un’uniforme e coerente individuazione dell’oggetto dei relativi provvedimenti ablatori. Si aggiunga, poi, il carattere camaleontico della confisca, che tende a mutare natura e finalità in base al contesto normativo di riferimento, rendendo ancora più complesso individuare unitariamente i limiti entro cui contenere l’oggetto dell’apprensione.

 

Il compito di perimetrazione è spettato alla giurisprudenza, che lo ha assolto muovendosi con particolare libertà, generando un panorama talvolta disomogeneo e caratterizzato da soluzioni differenziate, anche in base al titolo di reato o alla singola tipologia di confisca.

 

Una materia particolarmente sensibile a tale incertezza definitoria è certamente quella del riciclaggio, la cui confisca è disciplinata dall’art 648-quater c.p., che dispone, in deroga all’art. 240 c.p., l’obbligatorietà per la sua forma diretta e prevede altresì, al secondo comma e in subordine ad essa, l’ablazione nella forma per equivalente.

 

Le ragioni sottese alle maggiori difficoltà di individuazione del profitto confiscabile in ambito di riciclaggio derivano dalle caratteristiche criminologiche del tipo: esso presuppone, infatti, la realizzazione di un precedente reato, necessariamente commesso da soggetto diverso dal riciclatore, sui proventi del quale si innesta l’attività dissimulatoria finalizzata a celarne l’origine illecita.

 

Si ha, in questo modo, un’apparente duplicazione referenziale dei proventi, che solleva il problema di comprendere se sia possibile sottoporre a vincolo ablatorio, cautelare o definitivo che sia, anche quella porzione di valore (generalmente monetario) di derivazione eziologica del reato presupposto.

 

Sul punto si contendono lo scenario due contrapposti orientamenti: un primo che ritiene il profitto/prodotto del reato di riciclaggio coincidente tout court con i proventi del reato presupposto, con la conseguenza che dovrebbe ritenersi oggetto della confisca l’intera somma transitata nella disponibilità del riciclatore; l’altro, invece, che considera quale possibile oggetto dell’apprensione statale solo quanto effettivamente incamerato dal riciclatore come corrispettivo per l’attività svolta.

 

La pronuncia che ci occupa va a inserirsi nell’ambito del suddetto contrasto, prendendo in esame una situazione peculiare caratterizzata dalla circostanza che il ruolo del riciclatore è assunto dalla persona giuridica, alla quale è contestato il relativo reato ai sensi dell’art. 25-octies, d.lgs. 231/2001.

 

Occorre premettere che la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti prevede, tra le varie, una forma peculiare di “confisca-sanzione” disciplinata dagli artt. 9 e 19.

 

Da tale natura sanzionatoria, riconosciuta anche alla confisca in forma diretta, discende, secondo l’impostazione invalsa nella prassi, una funzione “punitiva” che condizionerebbe anche i criteri quantificativi del profitto confiscabile. In particolare, le Sezioni Unite, nel caso Fisia Italimpianti del 2008, hanno ritenuto che dinnanzi ad attività dell’ente ab origine illecite deve essere sottoposto a confisca tutto il valore coinvolto nell’operazione senza necessità alcuna di defalcare i costi sostenuti e di isolarne l’utile netto, un’impostazione poi estesa anche alle ipotesi di confisca individuale.

 

Proprio valorizzando tale componente la sentenza in esame si svincola (parzialmente) dal considerare gli argomenti tradizionalmente fatti propri dai due orientamenti, ritenendo che l’attività bancaria finalizzata alla “pulizia” del denaro debba considerarsi completamente illecita, di talché l’oggetto dell’ablazione dovrà coinvolgere tutte le somme impiegate nell’operazione di riciclaggio.

 

I temi oggetto della pronuncia assumono una rilevanza centrale per il settore bancario visti i rischi per gli istituti di credito di perdere, anche solo in via provvisoria, somme di denaro molto superiori agli introiti derivanti dal reato contestato, con gravi ripercussioni per l’attività d’impresa.

 

In tale ottica, si staglia sullo sfondo il tema della corretta e completa implementazione dei modelli di organizzazione, particolarmente complessa nel settore bancario a causa della parziale sovrapposizione con la disciplina dettata dal d.lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario). Una questione il cui approfondimento esula dai limiti del presente commento, ma di cui preme sottolineare l’importanza, segnalando il recente approfondimento, nell’ottica di una compliance integrata nel settore bancario, a cura di O. Capolino, E. Consigliere, L. Droghini e G. Neri, dal titolo “L’applicazione del d.lgs. n. 231/2001 nel settore bancario: rilevazione empirica e profili giuridici”, contenuto nel volume a cura di Francesco Centonze e Stefano Manacorda Verso una riforma della responsabilità da reato degli enti: dato empirico e dimensione applicativa.

 

 

2. La vicenda e il ricorso

 

La vicenda riguarda una banca svizzera interessata da un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Milano, con riferimento a una somma pari a circa 23 milioni di euro per fatti di riciclaggio.

 

Secondo l’ipotesi d’accusa, la banca sarebbe responsabile di non aver previsto e attuato i presidi necessari per evitare le condotte di riciclaggio realizzate dai propri apicali nell’interesse della medesima. Più specificamente, costoro avrebbero realizzato un sofisticato meccanismo che rendeva la banca “una sorta di contenitore” nel quale confluivano e transitavano ingenti somme di denaro (derivanti dai delitti di frode fiscale e di appropriazione indebita) che, grazie a varie operazioni anche su altri conti esteri, venivano “ripulite” con conseguente occultamento della loro provenienza illecita.

 

Dopo la conferma del provvedimento di sequestro da parte del Tribunale del riesame, la banca proponeva ricorso in Cassazione, adducendo, per quel che interessa in questa sede, la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 648-bis c.p. in relazione all’art. 648-quater c.p., nonche del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19 con riferimento all’individuazione del profitto del reato suscettibile di confisca, nonché carenza e/o radicale illogicità della motivazione sul punto”.

 

Il ricorrente, in particolare, articolava la propria doglianza ritenendo che i giudici del merito cautelare avessero errato nell’esatta individuazione del profitto confiscabile, avendo ritenuto, prima il G.I.P. e poi il Tribunale del riesame, passibile di ablazione l’intero importo della somma che si assumeva riciclata.

 

Al contrario, nell’opinione del ricorrente, il profitto doveva essere individuato nel solo vantaggio patrimoniale conseguito dalla banca per l’operazione di riciclaggio: un conto sarebbe infatti il provento ottenuto dalla banca imputata per l’illecito “servizio” offerto (profitto/prezzo del reato di riciclaggio), altro sarebbe quello derivante dalle attività di evasione dei clienti, coincidente con l’importo complessivo del denaro giacente nei loro conti correnti (profitto del reato presupposto).

 

Il ricorrente si mostra altresì consapevole del fatto che entrambe le posizioni esegetiche sono oggetto di contrapposti arresti di legittimità, precisando che l’orientamento ormai maggioritario è quello a cui si propone adesione. I giudici di merito, infatti, si sarebbero conformati al principio secondo cui oggetto della confisca sarebbe l’intera somma riciclata (come fatto, ad es., da Cass. Pen., sez. II, sent. n. 7503/2021), quando al contrario le più recenti pronunce virerebbero verso un superamento di tale concezione ritenendo, piuttosto, confiscabile il solo vantaggio patrimoniale conseguito dal riciclatore attraverso l’operazione. (Cass. Pen., sez. II, sent. n. 19561/2022)

 

 

3. Il contrasto giurisprudenziale in tema di confisca ex art 648 quater c.p.

 

Le due differenti posizioni esegetiche citate nel ricorso rappresentano gli approdi più recenti dei due tradizionali filoni in contrasto, i cui argomenti di fondo possono essere sinteticamente individuati nei termini che seguono.

 

I) Con riferimento al filone favorevole alla confiscabilità dell’intera somma di denaro coinvolta nell’operazione si fa leva, eminentemente, su due considerazioni poste in subordine tra loro.

 

a) Il profitto del reato presupposto coincide con quello del reato di riciclaggio.

Si argomenta partendo dalla struttura oggettiva del reato di riciclaggio, rilevandosi come la stessa, a ben vedere, non richieda ai fini della sua integrazione che il denaro riciclato venga restituito al suo dominus, ma solo che sia realizzato l’effetto dissimulatorio dei valori. Di conseguenza, ben può accadere che, per un lasso più o meno lungo di tempo, il riciclatore tragga un vantaggio anche dalla sola disponibilità materiale dei valori, in quanto potrà goderne e/o reimpiegarli in ulteriori attività economiche. In questi termini, la mera detenzione dei valori da riciclare rappresenterebbe, di per sé, un vantaggio economico idoneo a rientrare nel perimetro del profitto.

 

b) Il profitto del reato presupposto diviene, dopo l’attività criminosa, il prodotto del reato di riciclaggio.

Subordinatamente, si osserva come la somma riciclata, quand’anche non vi sia stato un diretto godimento da parte del riciclatore, deve quantomeno ritenersi compatibile con il concetto di “prodotto” del reato. La condotta realizzata dal riciclatore consisterebbe, infatti, in un’attività tesa a rendere irriconoscibile la derivazione criminosa dei valori, attribuendogli una natura nuova, “ripulita”. Pertanto, l’esito di quell’attività trasforma i valori transitati nelle mani del riciclatore, di talché essi debbono considerarsi il risultato empirico, e dunque il prodotto, dell’esecuzione criminosa.

 

II) D’altro canto, le posizioni che ritengono necessario individuare e sottoporre a confisca il solo corrispettivo ricevuto per l’attività riciclatoria si snodano lungo le seguenti argomentazioni.

 

a) Violazione del principio di proporzionalità.

Si ritiene che procedere alla completa ablazione di tutta la somma che si assume riciclata porterebbe ad esiti distorsivi, in quanto sarebbe violato il principio di necessaria corrispondenza tra oggetto delle confische e vantaggio economico derivante dalla commissione di un reato. Il riciclatore, invero, si avvantaggia delle somme che gli sono corrisposte per la sua attività dissimulatoria e non già dell’importo complessivo dei valori riciclati, i quali, seppur transitano nella sua disponibilità, non generano un diretto accrescimento patrimoniale, atteso che ne giova (o ne gioverà) esclusivamente l’autore del reato presupposto.

 

b) Inapplicabilità del principio di solidarietà tra correi.

Si rileva, inoltre, con specifico riguardo alla confisca per equivalente, che non sarebbe altresì applicabile neanche il principio di solidarietà, che permetterebbe di aggredire il patrimonio del concorrente pur se non abbia materialmente incamerato alcun profitto, ­giacché un’ipotesi concorsuale è per definizione esclusa nei casi di riciclaggio.

 

 

4. La decisione della II sezione della Suprema Corte sul profitto confiscabile all’ente ex art 19 d.lgs. 231/2001

 

La Suprema Corte ritiene infondato il motivo del ricorrente, sostenendo che l’adesione all’uno o all’altro orientamento necessiti di una previa e corretta individuazione della nozione di profitto confiscabile all’ente. Nel far ciò, viene richiamata la nota pronuncia delle Sezioni Unite Fisia Italimpianti (sent. n. 26654/2008), di cui, in buona sostanza, la Corte dichiara di condividere l’impianto motivazionale.

 

In tale sentenza, la S.C. ritiene che la nozione di profitto confiscabile si differenzi al mutare della natura giuridica del provvedimento ablatorio. In particolare, la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs. 231/2001) conosce diverse tipologie di ablazione del “profitto”, con natura intimamente diversa tra loro e rispetto ad esse la latitudine della nozione non può che assumere un’ampiezza significativamente differente.

 

Con riguardo alla confisca di cui all’art. 19 (che interessa anche il caso in esame), attesa la sua natura sanzionatoria, le Sezioni Unite ritengono che il profitto confiscabile vada inteso come «il complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti», aggiungendo però che per dare concreto significato operativo a tale nozione deve escludersi «l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico».

 

In questi termini, la S.C. aderisce dunque al principio del lordo, affermando che oggetto del provvedimento ablatorio debba essere la totalità delle somme derivanti dal reato senza necessità di individuare e differenziare il quantum di utile effettivamente incamerato dall’ente.

 

Tale principio, però, non ha valenza assoluta. La confiscabilità tout court dei proventi del reato è ammissibile solo qualora l’operazione economica in cui si inveri il fatto abbia ab origine una natura totalmente illecita. Diversamente, nel caso in cui il reato si consumi nell’ambito di una normale attività di impresa, la tesi del profitto lordo subisce un ridimensionamento, divenendo necessario verificare se il reato vada ad incidere o meno sulla validità del vincolo negoziale creato. Sicché viene in auge la nota distinzione dottrinale tra reato-contratto e reato in contratto: nel primo caso il negozio è illecito alla radice perché ne è illecito l’oggetto, tutti i proventi saranno dunque considerati come diretta e immediata conseguenza del reato e, per ciò solo, completamente confiscabili. Nel caso di reato in contratto, gli aspetti di illiceità si atteggiano a modalità o a caratteristica eventuale di un rapporto di per sé lecito e valido, con la conseguenza che parte dei proventi tratti dall’agente potranno ben non essere una conseguenza del fatto penalmente rilevante. Sarà in questi casi necessaria un’attenta indagine che permetta di isolare nel complessivo rapporto quegli introiti che rappresentano il vantaggio indebito del reato da quelli che, seppur convergenti nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito, rappresentano il corrispettivo di una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, e dunque non passibile di ablazione.

 

Aderendo a queste premesse, la Corte ritiene che nel caso di specie l’attività realizzata dalla banca debba considerarsi interamente illecita (reato contratto), giacché esclusivamente finalizzata all’occultamento del denaro transitato nei suoi portafogli, con la conseguenza che l’intera somma dovrà essere oggetto di confisca senza che sia necessaria alcuna ulteriore indagine sulla natura (netta o lorda) dei proventi.

Il collegio evidenzia altresì come l’attività core che genera arricchimento alle imprese bancarie sia l’erogazione di servizi e prodotti finanziari, che è fondata proprio sulla preventiva raccolta di denaro fra il pubblico. Pertanto, ritiene che la disponibilità delle somme in giacenza sui propri conti rappresenti, nella sua totalità, un immediato vantaggio economico di cui avrebbe direttamente beneficiato la medesima banca.

 

 

5. Conclusioni

 

Dall’analisi della pronuncia esaminata, può dunque ricavarsi la regola secondo cui nei casi di condotte di “ripulitura” di denaro attuate dai vertici bancari nell’interesse dell’impresa la confisca dovrà interessare l’intera somma oggetto dell’operazione.

 

È interessante notare come la Corte, con un dietrofront rispetto ai più recenti arresti, si allinei anzitutto agli argomenti dell’orientamento rigorista, intravedendo nella mera disponibilità delle somme di denaro una diretta utilità per il riciclatore sufficiente, essa sola, a realizzare un “vantaggio patrimoniale” di diretta derivazione del reato. Tale scelta è probabilmente dettata anche dal tentativo di aggirare la minore estensione dell’art. 19 rispetto a quella dell’art. 648-quater che, non prevedendo la confisca del prodotto, rende inutilizzabile l’altro argomento principale, e forse più persuasivo, dell’orientamento rigorista.

 

D’altro canto, però, in virtù del carattere sanzionatorio della confisca all’ente, la S.C. fa proprie ulteriori considerazioni, seppur non innovative, con cui “blinda” la sua opzione interpretativa.

 

Viene, infatti, operata una sorta di (dubbia) parificazione sul piano concettuale tra i costi sostenuti per la realizzazione del reato e le somme sulle quali verte la condotta di riciclaggio, facendone così derivare la superfluità di ogni ulteriore indagine sull’effettivo utile generato dall’ente, attesa la riconosciuta natura complessivamente illecita dell’operazione.

 

Rispetto all’opposto orientamento, invece, le argomentazioni della Corte non sembrano prendere in considerazione alcuni elementi che, seppur riferiti alla confisca per la persona fisica, risultano comunque estensibili al provvedimento ablatorio in esame. Si tratta, in particolare, dei profili inerenti al principio di proporzionalità, che, del resto, sono particolarmente aderenti anche alla natura della confisca ex art. 19 e altresì alla necessità, pure sostenuta in dottrina, di un trattamento sanzionatorio individualizzato rispetto alla gravità del fatto e alla colpevolezza dell’ente.

 

Tra l’altro, le preoccupazioni che può generare una simile impostazione si acuiscono se si considera che le attività di riciclaggio hanno solitamente ad oggetto somme di denaro e che dunque, in ossequio ai principi delle SS.UU. Gubert e Lucci, e da ultimo delle SS.UU. Coppola, l’aggredibilità del patrimonio risulta particolarmente agevolata: potendo essere colpite dalla confisca, nei limiti del profitto quantificato, tutte le disponibilità monetarie del reo e non ostando all’ablazione neanche la prova della derivazione lecita del numerario.

 

In questi termini, si corre il rischio di generare un sovrappiù punitivo che, come osservato dalla dottrina prevalente, dovrebbe spettare non alla confisca bensì alle altre sanzioni previste nel d.lgs. 231/2001. La confisca ex art. 19, infatti, pur avendo una natura sanzionatoria, ha come finalità preminente quella riequilibratrice o perequativa, ovverosia quella di ristabilire lo status quo ante alterato dall’illecito e non, invece, quella di aggravarlo.