Valuing Corporate Compliance: la rivincita dell’approccio empirico
di Claudia Cantisani, Assegnista di ricerca in Diritto penale
1. Introduzione
La compliance aziendale viene considerata tra gli studiosi, alternativamente, o come l’iniziativa di maggior valore su cui l’impresa possa investire, o una sorta di polizza assicurativa per evitare ogni forma di responsabilità.
Il dibattito sul valore della compliance è ancora fervido e il diverso modo d’intendere il tema risulta avere importanti ricadute tanto sulla gestione d’impresa, quanto sulle scelte dei consumatori.
Questo post offre una breve analisi di un recente contributo intitolato “Valuing corporate compliance”, dedicato alle strategie di valutazione della compliance aziendale, scritto da Todd Haugh, Associate Professor di Business Law and Ethics, Indiana University, e Suneal Bedi, Assistant Professor di Business Law and Ethics, Indiana University (per accedere alla fonte, si rinvia a Haugh, T. and Bedi, S., Valuing Corporate Compliance (March 7, 2023). Kelley School of Business Research Paper).
Secondo gli Autori del contributo in commento le ragioni della divergenza di vedute sul valuing corporate compliance sono due: la prima risiede nella scarsa definitezza del significato attribuito al valore della compliance aziendale; la seconda si radica nello scarso rigore empirico delle strategie per una sua misurazione, troppo spesso basate su presunzioni indimostrate (“anecdotal evidence”) incapaci di stabilire un collegamento tra la compliance e il suo impatto sugli investimenti.
Il saggio che esaminiamo si prefigge lo scopo di colmare entrambe queste lacune.
Da un lato, esso cerca di scolpire una nozione di “valore” della compliance definita in positivo: come si vedrà, infatti, mentre i lavori esistenti si sono concentrati in gran parte sul modo in cui i programmi di compliance possono far risparmiare le imprese, il presente studio dimostra che i programmi di compliance possono farle, anzi, guadagnare.
Dall’altro lato – e per realizzare l’obiettivo ora descritto – gli autori propongono di fare ricorso ad un metodo statistico chiamato choice based conjoint analysis.
La scelta metodologica alla base del contributo consiste nel valorizzare al massimo grado il dato empirico nella misurazione della compliance di impresa: una strategia, questa, con fondamentali implicazioni per gli stakeholders aziendali, tra cui i managers, le autorità che monitorano e applicano tali programmi e gli studiosi che fanno ricerca sulle politiche di compliance ottimali.
2. Approccio formalistico alla compliance
Al di là delle diverse definizioni che vengono date alla compliance, due possono dirsi i suoi principali scopi: prevenire comportamenti illeciti in modo da ridurre i rischi di responsabilità a carico dell’impresa; e, d’altra parte, generare norme sociali e regole di comportamento nella rete aziendale, destinate a radicarsi attraverso genuina adesione.
Per raggiungere questi due scopi il contributo esaminato individua tre canali: 1. formazione (education and training); 2. controllo (monitoring); 3. enforcement (investigation and punishment).
Su come questi tre canali si siano poi declinati all’interno delle imprese, il contributo fa chiaro che la compliance ha subito una rapida evoluzione diventando presto uno dei principali obiettivi delle imprese, per non dire uno dei principali motivi di pressione. Ciò ha portato tuttavia ad un approccio esasperatamente formalistico, nonché ad una visione della compliance come “cost center”, non diversa, cioè, da una polizza assicurativa (insurance policy mentality). Il risultato è stato quello di adottare programmi a volte assai costosi ma senza un chiaro valore.
3. Dibattito sul valore della compliance
La compliance può essere intesa come parametro di effectiveness, da valutare, cioè, in relazione agli obiettivi per i quali è fissata, o in termini economici.
In questo ultimo caso, essa può essere fatta coincidere rispettivamente o con quanto risparmiato (cost savings) dall’implementazione di programmi efficaci – per aver evitato, per esempio, addebiti penali o civili – o con quanto guadagnato (revenue creation).
Scartata la bontà della tesi per cui la compliance può essere considerata uno strumento per evitare potenziali – e certamente non pronosticabili – procedimenti penali, il contributo si concentra, piuttosto sulla versione “positiva” delle strategie aziendali: vale a dire, come investimenti attivi in grado di generare ricchezza.
Tale versione può aderire a due diversi modelli: “modest” e “grand”, il primo dei quali non è che un’estensione della concezione di compliance come mezzo di risparmio (cost savings approach). Esso viene fatto coincidere, per esempio, con la capacità dell’impresa di attirare e trattenere dipendenti.
Il modello “grand”, invece, matura da una prospettiva più ampia: esso viene inteso come la capacità dell’impresa di diventare competitiva sul mercato, attirando investitori o partners commerciali con ottima reputazione.
Il problema di questi modelli è che, sebbene possano rivelarsi di fatto efficaci, non esiste una prova empirica o strumenti adeguati in grado di dimostrare una reale correlazione tra mezzi e risultati. La compliance basata su questi modelli, infatti, è spesso basata su autodichiarazioni o materiali selezionati dall’impresa stessa (“self-selected materials”) ed è dunque sottratta ad un criterio di misurazione “scientifico”.
4. Il metodo “choice based conjoint” per la misurazione empirica del compliance value
Il contributo in esame propone di colmare la lacuna ora illustrata incentivando il metodo “choice based conjoint” (CBC): basato, cioè, sulle scelte dei consumatori, spesso disposti ad acquistare prodotti più costosi se provenienti da imprese virtuose.
Il metodo choice based conjoint – qualificato come un empirical-survey method – è mutuato da studiosi di marketing per la valutazione delle diverse caratteristiche dei prodotti. Ora viene esteso anche al settore giuridico ed è frequentemente utilizzato per la valutazione di brevetti e di pubblicità ingannevole.
Nel contributo viene illustrato l’esperimento svolto per sottoporre a verifica il metodo CBC rispetto alla compliance d’impresa.
In pratica, i consumatori sono stati posti di fronte alla scelta tra più prodotti appartenenti alla stessa categoria, ma diversi per caratteristiche (prezzo, colore etc.). Per ciascun prodotto, inoltre, e a fianco alle sue principali features, i consumatori sono stati informati dei programmi di compliance adottati dall’impresa di provenienza.
In particolare, lo studio si è concentrato su tre programmi di compliance: uno relativo a privacy and cybersecurity; un altro su environmental and health safety; e il terzo con riguardo a fraud and corruption.
Per condurre lo studio, inoltre, gli Autori hanno preso in esame tre diverse categorie di prodotto: cellulari, tavoli da pranzo, e carte di credito; a rappresentare, rispettivamente, i prodotti tecnologici, i classici manufatti di lunga durata e i prodotti finanziari.
Per ciascuna di queste categorie di prodotto ai consumatori selezionati è stato chiesto di indicare quanto valore attribuire alle caratteristiche via via sottoposte a scrutinio per ciascun oggetto, compresi i programmi di compliance adottati dall’impresa produttrice.
Ciascuno di questi programmi è stato illustrato ai consumatori con indicazione dettagliata dei suoi elementi principali, sulla base, per lo più, di due parametri: le Organizational Sentencing Guidelines e il DOJ’s guidance document on the evaluation of corporate compliance programs.
Questo approccio “descrittivo” alla compliance – diretto, cioè, a spiegare gli elementi della compliance, più che i suoi risultati – ha messo i consumatori nelle condizioni di valutare se rispetto ad un prodotto possa essere preferibile quello che deriva da un’impresa con determinati standards di qualità: nel caso dei cellulari, ad esempio, i consumatori hanno mostrato una spiccata preferenza per quelli derivanti da imprese più attente alla privacy.
Gli esperimenti condotti dagli Autori dello studio rivelano che l’apprezzamento della compliance può essere non solo sottoposto a misurazione empirica, bensì anche concretamente quantificato, poiché è possibile provare quanto di più sono disposti a spendere i consumatori per i prodotti che derivano da imprese compliant.
Inoltre, l’esperimento è utile a dimostrare che non tutti i programmi vengono valutati allo stesso modo: l’indice di apprezzamento varia infatti in base al tipo di prodotto.
I risultati del sondaggio hanno poi permesso di dedurre che, indipendentemente dal valore attribuito ai singoli programmi di compliance, quello attribuito alle caratteristiche tradizionali di ciascun oggetto preso a campione (ad es. il prezzo per i cellulari e per i tavoli, o il costo annuale per le carte di credito) rimane invariato e simile tra i vari consumatori.
Ciò permette anzitutto di affermare che ciascun profilo relativo ad ogni prodotto rimane a sé stante e che la valutazione dell’uno non inficia quella dell’altro. Inoltre ciò corrobora la bontà delle ipotesi degli Autori sottoposte a verifica empirica: esistono strategie per calcolare il valore della compliance in termini quantitativi e in misura tendenzialmente affidabile.
5. Limiti dell’indagine
L’esperimento incontra tuttavia alcuni limiti, i più rilevanti dei quali sembrano essere due.
Anzitutto, come rilevato nel contributo stesso, nella ricerca effettuata il metodo CBC mira a ricavare il valore della compliance sul lato della domanda, senza considerazione alcuna dell’offerta: la stima effettuata non comprende, cioè, la valutazione dei costi che l’implementazione dei programmi di compliance comporta.
Lo scopo dell’esperimento è del resto calcolare il valore delle strategie aziendali in termini di “price premiums” in comparazione con altre caratteristiche del prodotto, e non quello di misurare l’effettivo ritorno economico derivante dall’adozione dei compliance programs.
Inoltre, si afferma che il metodo CBC è ancora una “scale methodology” incapace di replicare la scelta attuale dei consumatori. Esso può, al più, servire come parametro di massima. A ciò si lega un’ulteriore considerazione sulla parzialità dei risultati raggiunti: mentre il metodo adottato è diretto ad individuare in termini quantitativi l’apprezzamento per i compliance programs da parte dei consumatori, esso non è in grado, per contro, di stabilire come debbano agire i dirigenti aziendali e cosa debba esser fatto per integrare i risultati della ricerca in una business strategy.
Da ultimo, si rileva che il calcolo del valore di compliance viene fatto in base agli elementi dei singoli programmi di compliance e non in base ai suoi effetti. Rimane quindi ignoto il valore che i consumatori attribuirebbero ai programmi di compliance se fossero a conoscenza del loro grado di efficacia.
6. Implicazioni per la Compliance Community
Il contributo analizza le implicazioni delle considerazioni finora esposte in relazione a tre tipi di destinatari: i dirigenti, gli regulators e prosecutors e la letteratura accademica.
Le implicazioni per i managers d’impresa sono compendiabili in quattro punti.
Il primo: i dirigenti dovrebbero vedere la compliance come fonte per revenue premiums più che come strumento di risparmio per aver evitato conseguenze dannose derivanti dalla mancata adozione di adeguati programmi (“savings through avoidance”).
Il secondo: posto che il valore attribuito ad un determinato programma di compliance varia in base del tipo di prodotto e delle sue caratteristiche, i managers dovrebbero tenere in considerazione questo legame di diretta pertinenza tra i due elementi per lo svolgimento delle proprie attività.
Il terzo: le imprese dovrebbero seriamente investire fondi in strategie di compliance marketing per far sì che esso diventi un significativo indice di concorrenza tra imprese.
Il quarto: la valorizzazione della compliance come indice positivo per l’incremento dei profitti non dovrebbe condurre ad approccio troppo “aggressivo”. I programmi di compliance hanno del resto anche un valore etico e non producono necessariamente ricavi, benchè correttamente implementati.
Tra le implicazioni più rilevanti per i regulators e per i prosecutors due aspetti in particolare, di quelli analizzati, riteniamo doveroso menzionare: il primo è che la compliance è un sistema intrinsecamente basato sulla valutazione dei rischi (inherently risk based approach) e ciò aiuta a tracciare una linea di collegamento tra valore attribuito ai prodotti e compliance programs elements; il secondo è che, offrendo alle aziende un nuovo modo di considerare e misurare il valore della compliance attraverso i price premiums, lo studio esaminato apre nuove strade alle imprese verso programmi di benchmarking.
Quanto, infine, alla letteratura accademica, si segnala che gli outputs della ricerca svolta possono rappresentare un buon punto di partenza per ulteriori sviluppi: in particolare diretti ad approfondire i criteri di apprezzamento che i consumatori adottano per valutare la compliance, compresa eventualmente la loro “effectiveness”, nonché diretti a rileggere la compliance come vera e propria business strategy, e non più solo come strategia difensiva.
7. Conclusioni
Il contributo si propone di rivedere il concetto di compliance, finora compreso in modo troppo ristretto, sia sul piano concettuale che su quello empirico.
Attraverso un metodo statistico empiricamente valido la ricerca ha dimostrato che i compliance programs possono generare ricavi e tramutarsi in return on investements, posto che i consumatori preferiscono investire in prodotti che provengono da imprese dotate di robusti programmi di compliance.
Il passo da compiere, che gli Autori stimano fondamentale per l’intera compliance community, è quello di pensare alla compliance in termini di strategia di business e di renderla oggetto di una business unit esperta in materia.