Modelli organizzativi e colpa di organizzazione nel settore della sicurezza sul lavoro: una nuova pronuncia della Corte di Cassazione sul tema

di  Federica  Zazzaro, Dottoranda di ricerca in Diritto penale

 

1. Introduzione

Con la sentenza n. 51455 depositata il 28 dicembre 2023, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su temi di grande rilevanza nell’ambito della tutela della salute e sicurezza sul luogo di lavoro: da un lato, ripercorre i profili di responsabilità del datore di lavoro in caso di violazione degli obblighi di prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro; dall’altro lato, ribadisce alcuni punti fermi in relazione alla responsabilità da reato dell’ente, ai sensi dell’art. 25-septies, d.lgs. n. 231/2001.

 

La pronuncia in oggetto merita di essere considerata sotto il profilo della responsabilità delle persone giuridiche, perché ribadisce alcuni punti fondamentali attinenti agli elementi fondativi della responsabilità degli enti.

 

Innanzitutto, emerge il principio secondo cui la mera violazione degli obblighi prevenzionistici da parte del datore di lavoro non può fondare ex se la responsabilità da reato dell’ente, essendo i due piani distinti e autonomi tra loro.

 

Inoltre, la Cassazione si sofferma sul tema della distinzione tra il modello organizzativo, di cui all’art. 30 d.lgs. n. 81/2008, oltre che all’art. 6 d.lgs. n. 231/2001, e il documento di valutazione dei rischi, di cui all’art. 28 d.lgs. n. 81/2008, e chiarisce che mentre il primo costituisce un sistema aziendale preordinato al corretto adempimento delle attività di valutazione del rischio, dotato di un organismo deputato alla vigilanza e di un sistema disciplinare, il secondo, invece, riguarda la sola valutazione dei rischi implicati nelle attività lavorative, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione nell’ambito dell’organizzazione.

 

 

 

 

2. La vicenda e il ricorso

La vicenda processuale nasce a seguito di un infortunio mortale di un operaio dipendente della società che durante un’operazione di disboscamento di un terreno terminante con una ripida scarpata, a causa delle condizioni e della pendenza del suolo, era precipitato nella fossetta di scolo, riportando gravi lesioni che ne avevano cagionato la morte.

 

I giudici di primo e secondo grado avevano condannato il datore di lavoro per il reato di omicidio colposo per aver omesso ogni controllo sul rispetto delle regole di sicurezza a tutela dell’incolumità dei propri dipendenti e per non aver curato l’organizzazione del lavoro né tantomeno aver delegato ad alcuno le funzioni di addetto alla materia antinfortunistica.

 

Inoltre, i giudici di merito avevano ritenuto colpevole la società dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 perché, pur essendosi dotata dei documenti previsti per legge ai fini della prevenzione del rischio – in particolare, il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) e il Piano Operativo di Sicurezza (POS) – e indicato i soggetti responsabili della loro attuazione, «le misure adottate in concreto per il controllo dell’applicazione delle prescrizioni previste dai piani di sicurezza, erano in realtà del tutto carenti e inadeguate a far fronte alle singole situazioni di pericolo che avrebbero potuto presentarsi» .

 

Avverso la sentenza di secondo grado la società s.r.l. proponeva ricorso per Cassazione lamentando una serie di vizi di motivazione, ai sensi dell’art 606, comma 1, lett. e) c.p.p., per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della stessa. In particolare, si contestava la pronuncia laddove riconosceva la responsabilità dell’ente per colpa di organizzazione in ragione del solo interesse dello stesso a ridurre i costi, senza considerare le misure organizzative attuate dalla società, ossia l’attuazione del documento attestante l’avvenuta valutazione dei rischi e del piano operativo di sicurezza, la predisposizione dei prescritti dispositivi di protezione individuale, la designazione di un preposto, nonché la predisposizione sul cantiere di un sistema satellitare di controllo a distanza, il cui funzionamento garantiva che ciascun lavoratore indossasse costantemente i dispositivi di protezione individuale.

 

In altri termini, la ricorrente richiedeva un’interpretazione sostanzialistica delle misure preventive e cautelative adottate, pur non essendo in concreto stata accertata l’adozione di un modello organizzativo. Al riguardo, come si avrà subito modo di vedere, la società ricorrente lamentava che nel giudizio di appello la Corte non aveva adempiuto alla richiesta di accertare che un modello organizzativo adeguato fosse vigente al momento del verificarsi dell’illecito.

 

Pertanto, secondo la ricorrente, i giudici avrebbero dovuto individuare specifici profili di colpa nella sola condotta del preposto, il quale, in considerazione dell’avvenuta ripartizione delle competenze, era deputato alla concreta gestione del rischio nel luogo dell’incidente, così come previamente e correttamente individuato dall’ente.

 

 

 

 

3. I presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità delle persone giuridiche nella decisione della Corte

La Corte di Cassazione, nell’accogliere i primi tre motivi articolati dalla ricorrente, si sofferma sui presupposti della responsabilità delle persone giuridiche e sui profili attinenti alla colpa di organizzazione, ritornando, altresì, sulla natura dell’interesse accertato in capo all’ente.

 

Dapprima, si ribadisce che il fondamento della responsabilità da reato delle persone giuridiche è costituito dalla colpa di organizzazione, «essendo tale deficit organizzativo quello che consente la piana ed agevole imputazione all’ente dell’illecito penale», così riprendendo quanto già affermato dalla Cass. pen., Sez. VI, n. 23401 del 11/11/2021, Impregilo (si rinvia, a tal riguardo, ad un precedente commento).

 

In particolare, la colpa di organizzazione, quale elemento essenziale ai fini dell’imputazione personale del reato all’ente, si fonda sul «rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo».

 

Nel riprendere un orientamento ormai consolidato, la Corte sostiene che ai fini dell’estensione della responsabilità dall’individuo alla persona giuridica è necessario individuare precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità di quest’ultimo (SS.UU., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).

 

Fatte queste premesse, nel caso di specie la Corte di appello aveva fondato la responsabilità della persona giuridica sulla base del solo accertamento di un interesse economico perseguito dall’ente, inteso erroneamente quale oggettiva attitudine del reato a concretizzare un’utilità per l’ente e non, invece, quale prospettazione finalistica, da parte del reo persona fisica, di far conseguire un beneficio economico all’ente mediante il compimento del reato (sul tema dell’interesse e vantaggio, si rinvia ad un precedente commento). Inoltre, i giudici di merito avevano sovrapposto i due piani di responsabilità, assimilando la società alla figura del datore di lavoro e ritenendo sussistente la responsabilità dell’ente sulla base della violazione degli obblighi preventivi e cautelativi facenti capo alla persona fisica.

 

Diversamente, la Corte asserisce che vi è una netta linea di confine tra il piano di responsabilità della persona giuridica e quello imputabile alla persona fisica autrice del reato. Pertanto, sebbene il reato presupposto funga da elemento essenziale dell’illecito dell’ente, «edificare la responsabilità dell’ente su condotte che sono riferibili, in astratto prima ancora che in concreto, esclusivamente alla persona fisica rappresenta un errore giuridico». Tale impostazione condivisa dalla Cassazione è, in verità, il frutto di un orientamento ampiamente consolidato in giurisprudenza e vagliato, altresì, dalla dottrina prevalente.

 

 

 

 

4. Il modello organizzativo e il documento di valutazione dei rischi nel settore della tutela della salute e sicurezza sul lavoro

La sentenza in commento, nell’accogliere le censure sollevate dalla società ricorrente si sofferma, altresì, su un altro profilo di notevole rilevanza nel settore della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, riguardante la differenza tra il modello organizzativo, di cui all’art. 6, d.lgs. n. 231/2001, e il documento di valutazione dei rischi (DVR), di cui agli artt. 17 e 28, d.lgs. n. 81/2008.

 

Nel caso di specie, i giudici di merito avevano sostenuto che l’ente si fosse dotato di tutti i documenti previsti per legge ai fini della prevenzione del rischio. Tuttavia, non avevano sciolto il dubbio circa la sussistenza, al momento del fatto, del modello organizzativo, ma si erano limitati ad affermare che le cautele preventive vigenti in quel momento non erano idonee a garantire il rispetto delle misure di sicurezza sul lavoro.

 

In altre parole, i giudici di merito avevano fondato la responsabilità dell’ente facendo riferimento esclusivamente alla documentazione inerente alla prevenzione del rischio – DVR e POS – senza accertare i profili propri della responsabilità dell’ente, inerenti alla (in)sussistenza di un modello organizzativo adeguato a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Piuttosto, si erano limitati a constatare che le misure adottate in concreto dalla società erano in realtà del tutto carenti e inadeguate a far fronte alle situazioni di pericolo come quelle che si erano registrate sul cantiere.

 

Dato ciò, la Corte di Cassazione, ritenendo la motivazione dei giudici di appello «erronea e vuota di contenuto», dapprima ricorda che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 231/2001 e all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 «non è un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione» (Cass., Sez. IV, n. 32899 del 08/01/2021, Viareggio).

 

Richiamando quanto già espresso dalla sentenza Impregilo, la Corte argomenta che ancorché il modello di organizzazione concorra a definire la colpa di organizzazione dell’ente e la sua inidoneità o inefficace attuazione determini l’imputazione dell’illecito all’ente, il giudizio di idoneità del modello stesso non può, tuttavia, fondarsi solo sul fatto che il reato si sia verificato. Diversamente opinando, ogni qualvolta sia commesso un reato, il modello di organizzazione sarebbe da considerarsi incapace di prevenirne la commissione e la clausola di esonero della responsabilità dell’ente non troverebbe mai applicazione.

 

In via secondaria, il Collegio sottolinea che tra il modello organizzativo e il documento di valutazione sussiste una differenza in termini sia quantitativi che qualitativi. Mentre quest’ultimo «individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli»; il modello, invece, è uno «strumento di governo del rischio di commissione di reati» posti in essere dai soggetti di cui all’art. 5 del decreto 231. Nel settore della tutela della salute e della sicurezza lavorativa, l’art. 30 d.lgs. n. 81/2008 ha previsto un contenuto specifico del modello organizzativo, che non si limita alla mappatura del rischio e all’attuazione di specifici protocolli, ma contiene effettivamente un’articolazione aggiuntiva rispetto al DVR, concernente il sistema dei flussi informativi, l’Organismo di Vigilanza e il sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate in esso.

 

In altre parole, i due piani si trovano in un rapporto di continenza l’uno con l’altro, essendo il documento di valutazione solo il primo degli strumenti inclusi all’interno di un modello di organizzazione, che, al contrario, delinea l’infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri prevenzionistici discendenti dalla valutazione dei rischi.

 

Pertanto, nel caso di specie, la Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Firenze per un nuovo giudizio.

 

Alla luce di queste considerazioni, la sentenza in oggetto mostra tutta la sua rilevanza, offrendo spunti riflessivi interessanti in tema di responsabilità degli enti. Difatti, richiamando alcune delle pronunce più significative sul punto, i giudici di legittimità riprendono temi cruciali della disciplina 231: dai presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità delle persone giuridiche, alla distinzione tra il modello organizzativo e il documento di valutazione dei rischi nel settore della tutela della sicurezza lavorativa, di cui al d.lgs. n. 81/2008.

 

 

 

 

 

Per consultare la sentenza in commento, si veda qui.