Tax control framework e responsabilità penale attraverso lo specchio della colpa di organizzazione

di  Federico Consulich, Professore ordinario  di Diritto penale

 

 

1. Premessa. Il laboratorio del diritto penale tributario

Il diritto penale tributario è negli ultimi anni il campo elettivo di sperimentazione di nuove soluzioni di controllo pubblico del comportamento economico.

Sono stati ad esempio impiegati prima che in altri settori gli strumenti di una giustizia ‘rimediale’, se non proprio riparativa, organizzata cioè secondo un mutuo scambio di utilità tra contribuente ed Erario: il primo corrisponde, secondo variegate modalità, in tutto o anche solo in parte, quanto non versato a titolo di imposta, il secondo ricompensa con la propria indulgenza una fedeltà fiscale tardiva e assai poco spontanea.

Oggi si può tastare con mano un ulteriore passaggio evolutivo: siamo in presenza di un’autoregolazione con effetti esimenti che va sotto il nome di adempimento collaborativo (o tax control framework). Per vero si tratta di un istituto non recentissimo, essendo stato introdotto dal d. lgs. n. 128 del 2015, ma i suoi riflessi penalistici si colgono a pieno solo di recente, anche in ragione di una prossima espansione: si pensi all’impulso al tax control framework fornito dalla legge di delega al Governo per la riforma fiscale n. 111 del 2023. Insomma, avviato come strumento tipicamente tributaristico, può rivelarsi un meccanismo ricco di implicazioni per vari settori del diritto punitivo di impresa.

Si potrebbe discutere a lungo delle radici politiche di simile disciplina. Da una parte è senza dubbio ispirata a istanze di autonomia dell’impresa, che pretende di poter disporre di un quadro regolatorio chiaro, per comprendere in anticipo le conseguenze delle proprie scelte societarie, ma al contempo anche ad un’esigenza di modernizzazione del rapporto tra contribuente ed Erario, per ridurre il costosissimo tasso di contenzioso che l’Agenzia delle Entrate sopporta annualmente. Per altro verso, nel bilancio complessivo sullo stato della libertà di iniziativa economica privata, non si può negare che per suo tramite, il controllo preventivo pubblico nell’organizzazione societaria registri una crescita di intensità.

Il tax control framework va infatti inserito nel novero di una serie di istituti ispirati ad un approccio preventivo alla devianza economica (vale a dire operativi prima o a prescindere dalla commissione di una violazione di legge) e orientati a intervenire nell’ambito dell’organizzazione con poteri di intromissione nella gestione della stessa di portata alquanto diversificata.

Proprio nel campo del diritto penale tributario interagiscono vari strumenti che rispondono alla logica di una condivisione della prevenzione tra soggetto pubblico e privato.

Si fa infatti crescente impiego del commissariamento giudiziale dell’ente ai sensi degli art. 34 e 34 bis del d. lgs. 159 del 2011 in presenza di fenomeni di intermediazione illecita di manodopera, in cui la falsa fatturazione e l’indebita compensazione sono modelli operativi essenziali per il perseguimento dell’ingiusto profitto fiscale[1].

Sullo sfondo, ma non tanto da risultare fuori fuoco, vi è poi il commissariamento dell’ente, magari realizzato in forma cautelare ai sensi dell’art. 45 comma 3 d. lgs. 231 del 2001, per le medesime ipotesi di reato presupposto della responsabilità della persona giuridica.

Utile quindi, in queste brevi note, compendiare una minima mappatura delle forme di controllo ante delictum dell’impresa, definendo le condizioni di equilibrio della partnership pubblico-privata nel contrasto all’illecito, in particolare di carattere tributario, in un contesto di economia di mercato.

 

 

 

2. La fisiopatologia del controllo preventivo sull’ente in ambito tributario (e non solo)

Ricorrendo ad una terminologia non giuridica, una visione integrata dell’intervento punitivo in ambito tributario (e non solo) restituisce due chiari interessi che la regolazione del rischio di noncompliance dell’organizzazione economica dovrebbe tenere in adeguata considerazione: la prevenzione dell’inquinamento della concorrenza e la promozione dell’iniziativa di impresa. Proprio sulla base del diverso bilanciamento tra prevenzione e impresa che paiono sottendere, pare possibile concepire diversi modelli di ingresso del controllo pubblico nell’organizzazione societaria privata.

Naturalmente occorre fare ampia opera di semplificazione e postulare che al legislatore non interessi solo ridurre il tasso di devianza, ma altresì di conservare, o finanche accrescere, il valore economico delle società oggetto del controllo pubblico. Solo così pare possibile formulare queste ipotesi di partenza[2].

Il primo paradigma che vede la prevenzione come interesse dominante è il commissariamento ai sensi del d. lgs. n. 159 del 2011, nelle due diverse morfologie del controllo e della amministrazione giudiziaria. Predilige programmaticamente la prevenzione a scapito della continuità aziendale. Gli effetti economicamente negativi che produce, in termini di perdita secca del patrimonio aziendale sono messi in conto, posto che spesso le aziende che ne sono attinte non sarebbero in grado di sostenersi senza un ‘incentivo’ criminale. Lo si dice fin d’ora, anche a prescindere dai casi di imprese intrinsecamente illecite, si tratta di strumenti assai invasivi, con effetti collaterali marcati, che dovrebbe essere riservato solo alle forme più gravi e penetranti di inquinamento del sistema economico da parte della criminalità, per lo più di carattere organizzato.

Ad esso si contrappone un secondo modello, dove la prevenzione se non recessiva è in equilibrio con la tutela delle ragioni dell’impresa e si mira a generare un contesto favorente lo sviluppo dell’iniziativa economica. È il cd. tax control framework, che si candida ad assumere la foggia del paradigma elettivo di partnership pubblico-privata; la prevenzione è integralmente autonormata e volontaria e i vantaggi che ne derivano in termini di certezza nei rapporti con la controparte pubblica rendono i costi del regime ampiamente inferiori ai benefici che ne conseguono.

Infine, vi è un modello eterodosso, poiché orientato non già alla prevenzione né alla implementazione degli investimenti, poiché opera post delictum in chiave sanzionatoria. Semmai qui l’intento è contemperare le ragioni della punizione con l’interesse sociale alla prosecuzione dell’impresa. Si tratta del commissariamento di cui al combinato disposto degli artt. 15 e 45 comma 3 d. lgs. 231 del 2001: una misura semplicemente sostitutiva di una sanzione interdittiva (anche applicata in via cautelare) che ha un’assonanza terminologica, ma una sostanza ben differente da quello di cui al d. lgs. 159 del 2011. Nel contesto della responsabilità da reato degli enti, dunque, il giudice può nominare un commissario incaricato di amministrare l’ente per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata[3]. La nomina è sempre disposta quando la misura possa pregiudicare la continuità dell’attività svolta in stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati di interesse strategico nazionale ai sensi dell’articolo 1 del d.l. n. 207 del 2012, conv. dalla l. n. 231 del 2012.

In materia fiscale a Milano si è fatto ricorso a tale misura, in procedimenti per interposizione fittizia di manodopera e fatture per operazioni soggettivamente inesistenti[4], ma, benchè rappresenti la forma per eccellenza della riorganizzazione imperativa dell’ente, il commissariamento ai sensi del d. lgs. 231 del 2001 è certamente poco frequente. Le ragioni sono plurime e tra queste quella preminente è probabilmente proprio la concorrenza che essa patisce ad opera delle forme di spossessamento gestorio che il d. lgs. n. 159 del 2011 offre con maggiore celerità e minori garanzie, nonché la considerazione dell’ente come cosa pertinente al reato, dunque apprensibile ai sensi dell’art. 321 c.p.p. (e quindi poi amministrato dal commissario di cui all’art. 104 bis disp. att. c.p.p.)[5].

Se quella in analisi rimane una soluzione estremamente sottoutilizzata, le prime due si prospettano come centrali nella prassi. Conviene concentrarsi su quella finora meno studiata dai penalisti, dunque sulla prevenzione collaborativa in ambito fiscale.

 

 

 

2.1. La partnership pubblico-privata ‘in equilibrio’

La ragione funzionale del tax control framework ne spiega effettivamente la compatibilità con la fisiologia dell’attività di impresa. Non nasce dall’emersione di un illecito o di una propensione all’infedeltà fiscale, ma si ambienta in contesti societari non problematici, il cui management semmai mira ad implementare l’efficienza, anche tramite una migliore organizzazione interna dei processi. Nel dialogo con l’amministrazione, insomma, l’ente collabora non de damno vitando, bensì de lucro quaerendo, ove ben inteso l’utilità non è certo monetaria, ma gestionale, dato che la procedura in analisi consente di giungere ad una migliore strutturazione interna e di conseguire la certezza del diritto (tributario) applicabile alla propria attività caratteristica.

Naturalmente, i vantaggi non sono solo per il contribuente, ma per la stessa l’Agenzia delle Entrate, che peraltro, ai sensi dell’art. 7 del d. lgs. n. 128 del 2015, è l’unica Autorità competente all’ammissione a tale regime. È ovvio che la collaborazione preventiva del privato sgrava l’esausta macchina dell’Erario da accertamenti complessi, farraginosi e dall’esito incerto, garantendo un gettito concordato anticipatamente.

Scorrendo l’art. 4 del d. lgs. n. 128 del 2015 e le disposizioni attuative dell’Agenzia delle Entrate[6] si capisce che l’ente deve assicurare l’attivazione di procedure di rilevazione, misurazione, gestione e controllo dei rischi fiscali. Conseguentemente gli è richiesto di neutralizzare, mediante le necessarie azioni correttive, le criticità eventualmente riscontrate nel suo funzionamento. Sul fronte dell’‘orientamento culturale’ dell’ente, deve essere promossa la formazione dei dipendenti e dei dirigenti nell’ottica del rispetto dei principi di onestà, correttezza e rispetto della normativa tributaria, assicurandone la completezza e l’affidabilità, nonché la conoscibilità a tutti i livelli aziendali.

Si tratta di stilemi tipici della compliance: alla mappatura dei rischi fiscali (assessment), deve seguire la loro gestione o management.

Con riguardo alla prima fase, essa deve riguardare tanto le possibili violazioni connesse a operazioni ordinarie (suscettibili, cioè, di manifestarsi in occasione di attività aventi natura ricorsiva), quanto quelli correlate ad operazioni che si svolgano una tantum.

Come evincibile dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 38/E del 2016, l’intensità del controllo è variabile a seconda che si prendano a riferimento processi interni non prettamente fiscali, ossia già sottoposti ad altri sistemi di controllo (come, ad esempio, quello contabile o di bilancio), e processi strettamente fiscali, poiché questi ultimi sarebbero sottoposti unicamente alle verifiche previste dal tax control framework.

Dal punto di vista della gestione delle criticità emerse dalla procedura di rilevazione, esse devono essere oggetto di specifica valutazione (rating) da parte dell’ente, combinando il criterio della probabilità del rischio con quello dell’impatto (in termini di effetti finanziari, ma non solo) della sua concretizzazione sull’attività d’impresa.

In secondo luogo, al fine di gestire gli eventuali gaps emersi dalla mappatura, l’ente, che intenda aderire al regime di adempimento collaborativo, è tenuto a elaborare un’efficace strategia di tax risk management, il quale deve consistere in «un processo dinamico, articolato in sotto-processi che ne garantiscono il miglioramento continuo e l’adattabilità ai principali cambiamenti che riguardano la struttura e il modello di business dell’impresa o le eventuali modifiche alla legislazione fiscale».

Se correttamente implementato, il modello di autoregolazione tributaria può rivelarsi uno strumento potente per garantire un solido rapporto virtuoso tra grandi contribuenti ed Erario, decomprimendo la spinta all’elusione e prevenendo l’insorgenza di complessi schemi di ‘ottimizzazione’ indebita dell’imponibile.

 

 

 

2.1.1. I prossimi passi del tax control framework

Ciò spiega l’interesse politico per l’argomento e la sua estrema attualità, dato che la delega fiscale (l. n. 111 del 2023), come detto in premessa, contiene reiterati riferimenti all’implementazione di questo strumento normativo per potenziare l’interlocuzione costante dei contribuenti con l’amministrazione[7].

Il rafforzamento del regime di adempimento collaborativo ovvero l’aggiornamento e l’introduzione di istituti, anche premiali, volti a favorire forme di collaborazione tra Fisco e contribuenti compare tra i principi fondanti del diritto tributario nazionale (si veda l’art. 2 comma 1, lett b) punto 1) della legge delega).

All’art. 17 si legge poi che il sistema italiano deve orientarsi nel senso del potenziamento del regime dell’adempimento collaborativo, agendo sui principali fattori che ne hanno limitato l’operatività finora. In primo luogo, riducendo progressivamente la soglia di accesso all’istituto e consentendo di aderirvi anche a società, prive dei requisiti di ammissibilità, che appartengono ad un gruppo di imprese nel quale almeno un soggetto sia invece abilitato, a condizione che il gruppo adotti un sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale gestito in modo unitario per tutte le società del gruppo.

In secondo luogo, dotando, con progressivo incremento, l’Agenzia delle entrate di adeguate risorse per disporre dei funzionari necessari a partecipare al dialogo con il contribuente[8].

Quel che più interessa al penalista è però previsto all’art. 17, comma 1, lett. g), punto 1.9), dove si legge che la prospettiva in cui si dovrà muovere il legislatore delegato è quella di potenziare gli effetti premiali connessi all’adesione al regime dell’adempimento collaborativo. È prevista l’ulteriore riduzione, fino all’eventuale esclusione, delle sanzioni amministrative tributarie per tutti i rischi di natura fiscale comunicati in modo tempestivo e completo, ma soprattutto la non punibilità di reati tributari eventualmente integrati, con particolare riguardo a quelli connessi al reato di dichiarazione infedele, fatti salvi i casi di violazioni fiscali caratterizzate da condotte simulatorie o fraudolente.

Vi è di più. La propensione all’estensione dell’istituto potrebbe finire per trasformarne la natura. È infatti previsto nella legge delega che il regime dovrebbe potersi applicare anche a particolari categorie di persone fisiche, per la precisione quelle che trasferiscono la propria residenza in Italia, nonché per quelle che la mantengono all’estero, ma possiedano, anche per interposta persona o tramite trust, nel territorio dello Stato un reddito complessivo mediamente pari o superiore a un milione di euro.

Il passaggio dagli enti agli individui implica che l’obiettivo non è più quello di riorientare o rendere più efficiente l’organizzazione di un ente societario, né di rendere più semplice il dialogo con contribuenti collettivi la cui analisi sarebbe difficile per l’Agenzia delle Entrate, ma semplicemente di rendere più spedita la verifica fiscale in generale e più attrattivo il sistema fiscale italiano per redditi di provenienza estera. Una logica promozionale, dunque, che però, letta nell’ottica del penalista, condurrebbe ad un affievolimento preventivo del precetto penale per alcune categorie di soggetti, non più in ragione della complessità dell’indagine fiscale sul loro conto, ma perché economicamente qualificati da capacità reddituali superiori alla media. Di qui il sospetto di un irragionevole privilegio fiscale è immediato.

Si tratta di considerazioni che oltrepassano però il perimetro di queste brevi riflessioni e interpellano profili di complessiva asimmetria del sistema tributario.

Quel che qui interessa rilevare è che, ove portato a compimento il disegno sotteso alla legge di delega fiscale, la logica premiale dell’adempimento collaborativo ricorderebbe molto da vicino l’approccio del d. lgs. 231 del 2001, superandone persino la portata. In questo senso, oltre all’art. 17 ora menzionato, lo sguardo corre all’art. 20, dedicato ai principi e criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale. Vi si legge infatti la richiesta al legislatore delegato di prevedere che la volontaria adozione di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, di cui all’articolo 4 del d. lgs. n. 128 del 2015, e la preventiva comunicazione di un possibile rischio fiscale da parte di imprese che non possiedono i requisiti per aderire al regime dell’adempimento collaborativo possano assumere rilevanza per escludere ovvero comunque per ridurre l’entità delle sanzioni. Si ricordi che attualmente non è prevista invece, rispetto alla responsabilità da reato degli enti, alcuna forma di non punibilità degli stessi, anche in caso di adesione a procedure conciliative in sede tributaria.

Conviene dunque considerare quali rapporti intercorrano tra responsabilità da reato dell’ente, e dunque il ruolo del modello organizzativo rispetto ad essa, e adempimento collaborativo.

 

 

 

3. Senso e limiti della cooperative compliance a partire dall’esempio tributario

L’adempimento collaborativo non è certo una soluzione nostrana, ma riflette trend internazionali ben riconoscibili[9], che si proiettano allo stesso tempo nel futuro prossimo degli ordinamenti continentali.

Sulla cooperative compliance punta, infatti, la Commissione europea, che mira a costruire un EU Cooperative Compliance Programme nell’ambito del programma “Fiscalis” per la cooperazione nel settore fiscale per il periodo compreso tra il 1° gennaio 2021 e il 31 dicembre 2027 – istituito con Regolamento (UE) 2021/847 del 20 maggio 2021. L’approccio è chiaro anche leggendo la “Communication from the Commission to the European Parliament and the Council. An action plan for fair and simple taxation supporting the recovery strategy” del 15 luglio 2020.

Curiosamente la prevenzione collaborativa si regge su radici internazionali, ma conosce antecedenti storici nostrani, come dimostra ad esempio l’esperienza dell’interpello, che, come noto, è il procedimento attraverso il quale il contribuente chiede preventivamente all’Amministrazione finanziaria un parere sul regime fiscale di un fatto, atto o negozio, così da evitare di subire, a posteriori, le conseguenze di eventuali errori nell’applicazione della legge tributaria[10].

Peraltro, anche istituti coevi all’adempimento collaborativo, come il tutoraggio dei grandi contribuenti di cui all’art. 27 d.l. 185 del 2008, concepito come presidio contro la concorrenza sleale da parte di evasori o elusori nel medesimo mercato, si pone sulla stessa lunghezza d’onda.

Concentrando l’attenzione sull’adempimento collaborativo, è evidente la finalità di certezza che con esso si persegue e dunque la sua ascrivibilità tra gli strumenti di miglioramento della accessibilità della norma punitiva in senso convenzionale, dunque sia sub specie amministrativa tributaria che penale in senso stretto, nel quadro dell’art. 7 Cedu. A seguito dell’accesso alla procedura, infatti, l’Amministrazione è vincolata alle risposte fornite al contribuente in sede di interlocuzione preventiva[11].

Si tratta insomma di una modalità di adempimento della clarity tax dovuta dall’ordinamento: tutte le volte in cui la norma astratta non è chiara e occorre predisporre strumenti compensativi[12].

Accanto agli indubbi pregi del regime, devono segnalarsene profili indubbiamente migliorabili.

Il limite principale dello strumento è lo scalino che si pone tra le società che possono accedere all’adempimento collaborativo, e dunque fruire delle favorevoli conseguenze penalistiche che ne derivano, e quelle che non ne hanno diritto. Il discrimen è essenzialmente dimensionale (anche se non solo) e rischia di fondare un trattamento differenziato in ragione di un criterio che solitamente non è indice di maggiore meritevolezza rispetto alle pretese punitive dell’ordinamento. Il beneficio della riduzione del rischio fiscale, che spesso è anche penale, dipende dunque da un meccanismo fondato sulla ricchezza del contribuente e non motivato da profili di merito.

Il sistema italiano è ad oggi ancora riservato, in base al d.m. del Ministro dell’economia e delle finanze del 31 gennaio 2022, ai soggetti residenti e non residenti (ma con stabile organizzazione in Italia) che realizzino un volume di affari o di ricavi non inferiore a un miliardo di euro per gli anni 2022-2024 (si tratta di un ampliamento della platea dei possibili beneficiari, poiché in precedenza la soglia era di cinque miliardi e, ancor prima, di dieci)[13].

Che si tratti di una scelta opinabile è testimoniato dall’esperienza di altri Paesi che hanno generalizzato la possibilità di instaurare un rapporto di collaborazione e dialogo con il fisco (come avviene, ad esempio, in Olanda, dove il cosiddetto “Horizòntal Monitoring” è attualmente accessibile qualsiasi impresa[14]).

Allo stato è innegabile che nel nostro sistema una selezione sia necessaria: il regime collaborativo non pare concretamente estensibile ad aziende medio o piccole perché, una volta generalizzato, richiederebbe un numero di funzionari dedicati a questo dialogo con il contribuente di cui l’Agenzia delle entrate non dispone[15].

Il criterio selettivo oggi prescelto non è invece altrettanto indiscutibile: più che la semplice dimensione, la variabile che pare essenziale, anche agli occhi del penalista che potenzialmente è interessato da simile disciplina, è invece la presenza di un’organizzazione adeguata in particolare in grado di neutralizzare o ridurre al minimo il rischio fiscale. Si tratta di un requisito oggettivo fondamentale nella logica della cooperative compliance e non è dunque un caso che esso compaia nei documenti formulati in sede OCSE, dove si legge che possono essere ammessi solo i contribuenti dotati di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, inserito nel contesto del sistema di governo aziendale e di controllo interno[16].

Vi è poi un secondo limite, di sistema, che va segnalato e attiene alla competenza a decidere in merito all’accesso al regime. Ad oggi è riservata, come detto, alla sola Agenzie delle Entrate, dunque a decidere in merito è la controparte del contribuente.

La gestione condivisa del rischio fiscale è infatti spesso al governo concordato di quello penale, sicchè non è difficile comprendere come un siffatto meccanismo, lasciato ad un dialogo a due, possa generare fenomeni distorsivi. In assenza di una terza parte, che possa esprimere interessi superiori o comunque generali ed equilibrare il confronto, ne può scaturire una regulatory capture, che assume le forme alternative dell’appiattimento della agenzia regolatoria sulle istanze del privato o dell’imposizione della visione del soggetto pubblico, strumentalizzando così il caso singolo per finalità politiche più generali; ciò ha tanto maggiori probabilità di accadere quanto più incerti e generici sono i riferimenti legali[17].

 

 

 

4. Riflessi penalistici della cooperative compliance

Si tratta ora di comprendere meglio perché, come più volte ripetuto, il tax control framework non sia solo un argomento tributaristico, ma sia assai rilevante anche per il penalista e ad un doppio livello.

In primo luogo, la riflessione si inquadra perfettamente nel contesto della permanente crisi di legittimazione del diritto penale tributario e dell’ancor più generale deficit di prevedibilità della responsabilità penale in campo economico. Effettivamente una enhanced relationship tra pubblico e privato (per impiegare i termini del noto studio OCSE Study into the role of tax intermediaries[18]) può rivelarsi un cambio di paradigma in grado di riavvicinare contribuente ed Erario o quanto meno ridurre le tensioni oppositive tra gli stessi e così generare un level playing field in cui l’operatore privato riconosce la legittimità della pretesa tributaria e il soggetto pubblico la ragionevolezza delle esigenze di speditezza e pianificazione dell’impresa.

In secondo luogo, la cosiddetta “tax compliance, ossia il corretto e spontaneo adempimento da parte dei contribuenti delle obbligazioni tributarie, impatta sulla colpa di organizzazione dell’ente, escludendola, rispetto al governo del rischio di commissione di reati fiscali, molti dei quali fanno parte del catalogo dei reati presupposto della responsabilità dell’ente. Si tratta allora di comprendere quali rapporti intercorrano tra la disciplina del 2015 e il d. lgs. n. 231 del 2001, se si tratti, cioè, di due strumenti alternativi o non piuttosto complementari rispetto alla cautela organizzativa contro gli illeciti penali tributari. Di conseguenza, si tratta di vagliare l’impatto della prevenzione collaborativa sulla ‘profilassi’ degli illeciti amministrativi dipendenti da reato tributario.

Infine, il côté penalistico della disciplina reca con sé una serie di vantaggi per il contribuente. Per lo più informali per l’ente, non rigidamente precalcolabili, né automatici, eppure assai ambiti da ogni imprenditore.

Chi accede al tax control framework ottiene in cambio soprattutto vantaggi in chiave investigativa e processuale.

In sede di denuncia per reati tributari, l’Agenzia delle Entrate è tenuta a comunicare alla Procura della Repubblica l’eventuale adesione del contribuente al regime di adempimento collaborativo e a fornire qualsiasi informazione utile inerente al sistema adottato dal contribuente stesso, avendo specifico riguardo al controllo del rischio fiscale e all’attribuzione di ruoli e responsabilità. Naturalmente il Pubblico Ministero non può certo percepirsi limitato nella propria attività di indagine, ma è evidente che l’approccio potrebbe essere meno aggressivo fin dall’avvio del procedimento[19]. La presenza di un meccanismo di controllo interno adeguato ed efficiente potrebbe rendere eccessiva l’adozione di misure cautelari, anche nei confronti dell’ente ai sensi dell’art. 45 comma 3 d. lgs. 231 del 2001.

Le stesse opzioni investigative d’iniziativa della Guardia di Finanza, prima ancora che si giunga dunque alla Procura della Repubblica, vengono influenzate dell’adesione a questo regime da parte del contribuente. Come precisato nel Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, redatto dal Comando Generale delle Fiamme Gialle, «in linea di principio, la volontà dei contribuenti di accedere a forme privilegiate di dialogo preventivo con l’Amministrazione finanziaria attraverso anche l’adesione al regime dell’adempimento collaborativo rappresenta una chiara evidenza di minor rischio fiscale per i Reparti del Corpo, con la conseguenza che, nella prospettiva della selezione dei soggetti da sottoporre ad attività ispettiva, tali posizioni rivestono un interesse operativo minimo»[20].

A parziale compensazione di un simile approccio di riduzione della vigilanza sul contribuente, deve rilevarsi che il quarto comma dell’art. 6 del d. lgs. n. 128 del 2015 prevede il dovere dell’Agenzia delle Entrate di trasmettere alla Procura le notitiae criminis che ritenga eventualmente ravvisabili nel comportamento dei contribuenti (rectius: degli apicali dell’ente) in vigenza dell’adempimento collaborativo.

Si tratta di una previsione del tutto ragionevole, poiché è vero che nella maggior parte dei casi la scelta degli apicali di un ente di aderire al regime di cooperative compliance e dunque di instaurare un rapporto di collaborazione e reciproca fiducia con l’Agenzia delle Entrate sembra inconciliabile con il fine di evasione, ma non vi è alcuna implicazione logica in tal senso. Nulla esclude, infatti, che prima si aderisca poi si decida di commettere il reato o addirittura si aderisca allo scopo di precostituirsi una scusa sul modello dell’actio libera in causa.

 

 

 

4.1. Tax control framework e colpa di organizzazione

Concentrandoci su uno specifico rebound penalistico dell’adempimento collaborativo tra quelli menzionati al paragrafo precedente, si deve rimarcare lo stretto intreccio con la responsabilità dell’ente. Gli artt. 3 ss. del d. lgs. n. 128 del 2015 percorrono tracciati assai evocativi per chi sia avvezzo alla disciplina del d. lgs. n. 231 del 2001.

Il reciproco affidamento tra Amministrazione finanziaria e contribuenti qualificati, infatti, è giustificato, nell’ottica di quest’ultima, dalla presenza in seno all’ente di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale. Fin dalla terminologia impiegata si avverte di essere in un contesto molto simile a quello della 231, quello della autonormazione, basata su una delega dell’Autorità pubblica al privato per il controllo di una determinata categoria di rischio, volta a volta definita in via legale[21].

Il tax control framework è in effetti uno strumento di implementazione della ‘diligenza di organizzazione’ interna. Il rapporto tra il modello di cooperative compliance e reati fiscali è lo stesso che si pone tra Documento di valutazione dei rischi (DVR) e reati colposi ed allo stesso modo entrambi finiscono per rifrangersi, in via mediata, sull’adeguatezza del modello organizzativo nell’ottica della 231.

Come il DVR, anche le procedure interne predisposte per implementare l’adempimento collaborativo dell’ente non sono direttamente preventive della responsabilità da reato dell’organizzazione, ma certamente aumentano le capacità complessiva di compliance della struttura, perché riducono grandemente i rischi-reato di propria competenza, rispettivamente quelli colposi in tema di sicurezza sul lavoro e quelli fiscali. Proprio lo stretto collegamento funzionale e cautelare, implica che, in entrambi i casi, la costruzione del modello organizzativo dell’ente ne venga fortemente condizionato a livello contenutistico.

Dal punto di vista dello spettro cautelare però, e analogamente a quanto avviene con il DVR, il modello implicato dall’adesione alla cooperative compliance è più ampio di quello del modello di cui al d. lgs. n. 231 del 2001: esso non mira, infatti, alla prevenzione di specifici predicate crimes, i reati tributari, ma, il più generale rischio fiscale, che comprende anche la possibilità che vengano compiute violazione amministrative. Quello contenuto dal tax control framework è infatti il rischio di trasgredire norme di natura non penale, ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento tributario, come chiarito dall’art. 3 d. lgs. n. 128 del 2015[22].

Per quanto il protocollo preventivo ai sensi dell’art. 6 del d. lgs. 231 del 2001 e il tax control framework siano entrambi strumenti di innalzamento del livello di efficienza organizzativa dell’ente, conviene però tenere in debito conto le differenze onde evitare di incorrere nell’equivoco che l’adozione di quest’ultimo prevenga imputazioni all’ente, almeno per quanto attiene i reati presupposto di cui all’art. 25 quinquiesdecies del d. lgs. n. 231 del 2001.

L’adempimento collaborativo, infatti incide sì sulla matrice della responsabilità dell’ente, vale a dire la colpa di organizzazione, ma non fino al punto da escluderla tout court in relazione al rischio penale tributario. L’ente che costruisca un pur adeguato tax control framework si trova certamente sulla buona strada per l’adeguamento del modello di organizzazione, gestione e controllo del rischio reato per i reati tributari, ma non ha ancora compiuto l’intero percorso di compliance ai sensi del d. lgs. 231 del 2001. Continuando nel linguaggio figurato: non è al punto di partenza, ma non è certo ancora all’arrivo.

Lo iato che segna l’incompletezza del percorso è essenzialmente costituito dalla mancanza di un’istanza, autonoma ed indipendente, preposta alla vigilanza sulla corretta ed efficace attuazione del modello di cui al d. lgs. n. 128 del 2015.

Nella disciplina di quest’ultimo, infatti, la legge non contiene alcuna previsione analoga a quella evincibile dall’art. 6, d. lgs. n. 231 del 2001 e il compito di monitorare effettività ed efficacia del tax control framework appartiene non già a un organismo dotato dell’indipendenza e dell’autonomia bensì al management stesso, che deve fare esercizio non solo di autonormazione, ma altresì di autocontrollo.

Secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 2, d. lgs. n. 128 del 2015, infatti, il sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale deve prevedere, con cadenza almeno annuale, solo l’invio agli organi di amministrazione di una relazione, che deve illustrare le verifiche effettuate e i risultati emersi, le misure adottate per rimediare a eventuali carenze rilevate, nonchè le attività pianificate.

Il deficit di sorveglianza si ripercuote anche sui meccanismi sanzionatori. Questi sono ben presenti, per non dire centrali, nella cornice del d. lgs. n. 231 del 2001, al già citato art. 6, comma 2, lett. e), che impone la previsione nel modello organizzativo di un sistema disciplinare idoneo a reprimere il mancato rispetto delle misure da esso indicate nel modello.

Al contrario, la disciplina di cui al d. lgs. n. 128 del 2015 non ha previsioni finalizzate a sanzionare l’eventuale inosservanza del tax control framework.

È certamente vero che oggi si assiste ad una rivisitazione del concetto di colpa di organizzazione, disancorandola, a certe condizioni, dalla mancata adozione del modello. È un percorso che si è intravisto nella sentenza della Cassazione relativa al disastro di Viareggio ed è giunto a compimento in alcune recenti decisioni della IV sezione[23].

Si tratta però ancora di pronunce isolate e soprattutto, assai discutibili nel merito, poiché sottendono un grave fraintendimento. Basti qui rilevare che, ritagliando la colpa di organizzazione su quella individuale, intesa quindi come violazione di una cautela che la persona fisica doveva rispettare, la Cassazione dimentica la dimensione collettiva della prevenzione dei reati e, ulteriormente, lascia priva di struttura portante la responsabilità della persona giuridica rispetto all’universo dei reati dolosi, in cui cautele individuali per definizione mancano, senza contare che, dal punto di vista politico-criminale, si disincentiva, quel che è più grave, l’adozione di protocolli preventivi[24].

In sintesi, al di là di queste discutibili prese di posizione giurisprudenziali, la corretta nozione di colpa di organizzazione impedisce di ritenere sufficiente l’adozione del tax control framework ad escludere la responsabilità dell’ente per reati tributari; gli indubbi presidi che esso comporta sono, da un lato, settoriali,  e, dall’altro, comunque incompleti dal punto di vista procedurale.

Un’altra considerazione finale. Non può esserci adeguata organizzazione se permane l’impossibilità di ricorrere ad una delega di funzioni in materia fiscale, come invece accade in materia di sicurezza sul lavoro. Non a caso, manca nel contesto tributario un equivalente funzionale all’art. 30 del d. lgs. 81 del 2008 nell’ambito della sicurezza sul lavoro, che serve proprio a collegare il modello organizzativo dell’ente in materia di reati colposi ai doveri di sorveglianza cui il delegante è tenuto rispetto al delegati ai sensi dell’art. 16 comma 3 d. lgs. 81 del 2008.

A dispetto della medesima complessità tecnica che si registra nel campo antiinfortunistico, in ambito fiscale l’amministratore unico o quello gravato della rappresentanza legale dell’ente non può esimersi in nessun caso dai propri obblighi fiscali[25]. Un diffuso orientamento giurisprudenziale, in virtù di un richiamo (paradossalmente in malam partem) alla tassatività, personalità o inderogabilità dell’obbligo d’imposta, nega l’efficacia ad ogni ripartizione privatistica della responsabilità in materia. Al contrario, è ben auspicabile che si instauri anche in sede penale, pur in mancanza di una norma ad hoc, l’indirizzo volto ad affermare la teorica possibilità di conferire valide deleghe a dipendenti qualificati o professionisti consulenti, come del resto già avviene nella normativa amministrativa di settore (art. 11, comma 1, d. lgs. 472 del 1997).

Un simile vincolo negativo preclude scelte efficaci in materia di ripartizioni di compiti e funzioni ai soggetti più qualificati, dunque impedisce di massimizzare la diligenza di organizzazione in materia fiscale.

[1] Sul tema si vedano le lucide riflessioni di Dell’Osso, Appaltante, datore di lavoro, evasore fiscale: fluidità dei ruoli nella giurisprudenza penal-tributaria, in Riv. dir. trib., 4/2023, 67 ss.

[2] Chiaramente ad ognuno è sotteso un differente impatto economico, in base al differente livello di intensità dell’intromissione della mano pubblica nella struttura aziendale. Per quanto non sia la sede per riflettere sul punto, né, in fondo, un penalista abbia le competenze per valutare appropriatamente questo aspetto, è però sufficientemente intuitivo comprendere le conseguenze pratiche di ciascuna tipologia di misura.

[3] Sul punto si veda, tra gli altri, Camurri, Il commissariamento dell’ente nel «sistema 231», in Rivista 231, 2/2022, 181 ss.

[4] Si veda ad esempio Tribunale di Milano, Ufficio Gip, ord. 21 luglio 2021, Cegalin Milano s.p.a. e Hotelvolver Milano s.r.l., inedita.

[5] Su questo si vedano le riflessioni di Fusco e De Marino, Il commissario giudiziale 231: il legislatore amplia l’ambito di intervento di un istituto in declino a causa della complessità dei presupposti applicativi e dell’interferenza di altri istituti, in Rivista 231, 4/2023, 31 s.

[6] Ci si riferisce al provvedimento prot. 54237 del 14 aprile 2016, recante Disposizioni concernenti i requisiti di accesso al regime di adempimento collaborativo disciplinato dagli articoli 3 e seguenti del decreto legislativo del 5 agosto 2015, n. 128, reperibile alla seguente url: www.agenziaentrate.gov.it.

[7] Per la verità, già prima della legge delega del 2023 si era espressa a favore dell’allargamento del perimetro dell’istituto anche il cd. piano Colao, in cui si suggeriva di incentivare l’adozione di sistemi di tax control framework anche attraverso l’estensione del dialogo preventivo con l’amministrazione finanziaria, cfr. Comitato di esperti in materia economica e sociale, Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022”. Rapporto per il Presidente del Consiglio dei Ministri, giugno 2020, propone la non applicabilità sanzioni penali e amministrative per le società (italiane ed estere identificate in Italia) che (i) siano in regime di cooperative compliance o (ii) implementino un modello di presidio del rischio fiscale o (iii) segnalino e documentino adeguatamente operazioni caratterizzate da un rischio di natura fiscale.

[8] Si noti che il testo prevede inoltre ulteriori interventi nell’ottica dell’ampliamento del perimetro applicativo dell’istituto, ammettendo la possibilità di gestire nell’ambito del regime dell’adempimento collaborativo anche questioni riferibili a periodi d’imposta precedenti all’ammissione al regime, nonché di introdurre nuove e più penetranti forme di contraddittorio preventivo ed endoprocedimentale, con particolare riguardo alla risposta alle istanze di interpello o agli altri pareri, comunque denominati, richiesti dai contribuenti aderenti al regime dell’adempimento collaborativo.

[9] Si veda il rapporto OCSE, Cooperative Compliance: A Framework, del 29 luglio 2013, 57 ss., sull’importanza del tax control framework al fine di generare un sinallagma tra trasparenza offerta dai contribuenti e certezza operativa assicurata dalle Agenzie pubbliche, nonché il successivo documento intitolato Co-operative Tax Compliance. Building better Tax Control Framework del 2016.

[10] Come noto ne esistono cinque diversi tipi, da quello ordinario, che consente a ogni contribuente di chiedere un parere in ordine alla applicazione delle disposizioni tributarie di incerta interpretazione riguardo un caso concreto e personale, nonché di chiedere chiarimenti in ordine alla corretta qualificazione di fattispecie, sempre che ricorra obiettiva incertezza, a quello probatorio con cui il contribuente chiede un parere in ordine alla sussistenza delle condizioni o alla idoneità degli elementi di prova chiesti dalla legge per accedere a determinati regimi fiscali nei casi espressamente previsti. Ad essi si aggiungono l’interpello anti-abuso, volto ad acquisire un parere relativo alla abusività di un’operazione, quello disapplicativo, per ottenere la disapplicazione di norme che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti di imposta, se viene fornita la dimostrazione che detti effetti elusivi non potevano verificarsi e infine l’interpello sui nuovi investimenti che garantisce agli investitori, italiani o stranieri, di comprendere anticipatamente quale sia il trattamento tributario applicabile a importanti investimenti.

[11] Si veda a tal proposito Agenzia delle Entrate, provv. 335238/2020.

[12] In riferimento corre all’importante saggio di Hopwood, Clarity in Criminal Law, in 54 Am. Crim. L. Rev. 695 (2017), con particolare riferimento alla giurisprudenza della Corte Suprema federale, 709 ss.

[13] Esistono poi altri casi particolari, come quello dei soggetti residenti e non residenti (ma con stabile organizzazione in Italia) che abbiano presentato istanza di adesione al progetto pilota dell’Agenzia delle Entrate sul regime di adempimento collaborativo (e che abbiano un volume di affari o di ricavi non inferiore a un miliardo di euro); o delle imprese che intendano dare esecuzione alla risposta loro fornita dall’Agenzia delle Entrate a fronte di istanza di interpello sui nuovi investimenti (ex art. 2, d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147), indipendentemente dal volume di affari o di ricavi; o, infine, dei soggetti che siano parte di un cd. gruppo IVA costituito da imprese già ammesse al regime ex d.l. n. 119 del 2018, indipendentemente dal relativo volume di affari o di ricavi.

[14] Per una analisi del modello olandese si vedano Berkhout-Van Engers, Investigation Methodology for Information-Driven Horizontal Fiscal Supervision: A Dutch Approach to Improving Effective Law Enforcement, in 40 Intertax 654 (2012), 666. Nella letteratura non penalistica italiana, Marino, La Corporate Tax Governance quale nuovo approccio culturale nei rapporti tra Fisco e contribuente, in Marino (a cura di), Corporate Tax Governance, Milano, 2018, 16.

[15] Agenzia delle Entrate, Provvedimento 26 maggio 2017, n. 101573, precisa che l’ufficio assegna al contribuente almeno due funzionari di riferimento.

[16] Nel 2013, l’OCSE pubblicava infatti il rapporto “Co-operative Compliance: A Framework. From Enhanced Relationship to Cooperative Compliance” (reperibile alla seguente url: www.oecd.org), nel quale (57 ss., 60 ss.) rappresentava la necessità di informare il rapporto tra contribuenti e Amministrazione finanziaria alla collaborazione ed espressamente richiedeva alle imprese di dotarsi di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, procedendo tra l’altro ad un’analisi dettagliata dei rischi fiscali, predisponendo  le adeguate strutture e procedure interne per il perseguimento degli obiettivi fiscali.

[17] Il fenomeno è studiato nella letteratura anglosassone, cfr. Stigler, The theory of economic regulation, in 2 Bell Journal of Economics and Management Science 3 (1971); Peltzmann, The growth of government in 23 Journal of Law and Economics 209 (1980); con specifico riguardo al diritto tributario, Burton, Responsive Regulation and the Uncertainty of Tax Law. Time to Reconsider the Commissioner’s  Model of Cooperative Compliance, in eJournal of Tax Research, 2007, 71 ss. Sul fronte delle proposte per risolvere il rischio, promuovono l’adozione di un modello tripartito entro un cooperative regulatory framework, cui possano partecipare anche soggetti espressivi di gruppi di interesse pubblici, per prevenire il fenomeno del regulatory capture, Ayres-Braithwaite, Responsive Regulation: Transcending the Deregulation Debate, New York, 1992, 57 ss.

[18] OCSE, Study into the Role of Tax Intermediaries, 2008, 39 ss.; in Italia il tema della collaborazione tra soggetti pubblici e privati nella compliance economica è stato ben approfondito, con specifico riguardo al riciclaggio, da Centonze, La partnership pubblico-privato nella prevenzione del riciclaggio e il problema della posizione di garanzia dei componenti degli organi societari, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 1757 ss.

[19] Si veda Imperato, L’adempimento collaborativo, in Giarda-Perini-Varraso (a cura di), La nuova giustizia penale tributaria, Padova, 2016, 171 rileva che l’impresa potrebbe offrire agli inquirenti un assetto di ruoli, responsabilità e rischi in materia penale tributaria che dovrebbe consentire di delimitare la diffusività dell’iniziativa dell’Autorità giudiziaria.

[20] Comando Generale della Guardia di Finanza, III Reparto Operazioni – Ufficio Tutela Entrate, Circolare n. 1 del 2018, 72.

[21] Sul punto si vedano le considerazioni di Bianchi, Autonormazione e diritto penale, Torino, 2021, 28 ss. e 166 ss.

[22] Rileva già Ielo, Responsabilità degli enti e reati tributari, in Rivista 231, 1/2020, 16 che la funzione preventiva del modello 231 e quella del tax control framework hanno latitudine diversa e l’area di rischio presidiata dal secondo è molto più ampia.

[23] Cass., IV, 15 febbraio 2022 (10 maggio 2022), n. 18413 in Cass. pen., 2023, 3342 ss.; successivamente si veda anche Cass., IV, n. 21704 del 28/03/2023 Ud. (dep. 22/05/2023) Rv. 284641 – 01.

[24] Per una serie di fondatissime critiche alla sentenza si vedano Paliero, Colpa penale e colpa di organizzazione: analogie, epifanie e dissolvenze, e Piergallini, L’uso obliquo della colpa di organizzazione: ripensamenti e regressioni, entrambi in Cass. pen., 2023, rispettivamente, 3346 ss. e 3356 ss.

[25] Sia consentito il rinvio a Consulich, La lunga marcia del diritto penale tributario, dalla periferia al centro del sistema penale, in Cass. pen., 2023, 3477 ss.