L’ente patteggia ma le persone fisiche vengono assolte: la Cassazione esclude la revisione

di  Megi  Trashaj,  Dottoranda  in Diritto penale;  Avvocato

 

 

 

1. Alcuni termini per inquadrare la questione: l’art. 8 del d.lgs. 231/2001, i vantaggi del simultaneus processus e l’utilità dell’istituto della revisione

 

La Corte Suprema di Cassazione, sezione IV penale, con la pronuncia n. 10143 del 2023 decide sulla richiesta di revisione presentata da un ente con riferimento ad una sentenza di applicazione della pena su richiesta adottata nei suoi confronti, a fronte della successiva decisione assolutoria con la quale un diverso giudice riteneva immuni da responsabilità le persone fisiche che erano state individuate come soggetti attivi del reato presupposto che ha dato luogo alla contestazione in capo alla società.

 

Prima di passare all’analisi del caso sottoposto all’attenzione della Corte è utile dare uno sguardo, seppur sintetico, alla cornice normativa all’interno della quale poter inquadrare la decisione poc’anzi menzionata.

 

Il tal senso si può subito evidenziare che, nel caso in analisi, la Cassazione ribadisce la cd. autonomia della responsabilità della persona giuridica rispetto a quella della persona fisica. Essa trova fondamento giuridico nell’art. 8 d.lgs. n. 231/2001, norma che prevede il permanere della responsabilità per l’ente nei casi in cui

  • l’autore del reato presupposto (che dà origine alla responsabilità della società) non sia stato identificato (art. 8, comma, 1, l. a);
  • la persona che ha realizzato la condotta illecita sia risultata non imputabile (art. 8, comma 1, l. a);
  • il reato presupposto sia estinto per causa diversa dall’amnistia (art. 8, comma 1, l. b).

 

Nonostante questa autonomia tra i due profili di responsabilità, il legislatore del 2001 ha stabilito, quale regola generale per l’accertamento della responsabilità degli enti, quella del simultaneus processus.  L’art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 231/2001, infatti, prevede che “il procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente è riunito al procedimento penale instaurato nei confronti dell’autore del reato da cui l’illecito dipende”.

 

Tra i vantaggi del giudizio “cumulativo”, in cui si discute contestualmente di diverse responsabilità, vi è in primis quello dell’economia processuale, cui si aggiungono altresì la maggiore completezza dell’accertamento e una più accentuata attenzione che l’organo decidente può prestare all’esigenza di non adottare decisioni contradditorie.

 

Nondimeno, la regola del simultaneus processus per ente e persona fisica trova dei temperamenti dovuti ad altrettante esigenze di economia processuale (si pensi all’eventuale sospensione del procedimento nei confronti di uno solo dei soggetti nei confronti del quale è avviato il procedimento penale) o alle diverse scelte di rito che possono compiere la persona giuridica, da un lato, e la persona fisica, dall’altro. Tali eccezioni sono disciplinate dall’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 231/2001 il quale, per quanto qui di interesse, fa salva la possibilità di procedere separatamente nei confronti della corporation quando questa decida di definire la sua posizione con sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p.

 

Se le responsabilità di ente e persona fisica – pur intimamente connesse – vengono accertate in procedimenti separati, si potrebbe giungere, in astratto, anche a due sentenze definitive incompatibili tra loro.

 

Con riferimento a quest’ultimo scenario, guardando alle disposizioni dell’ordinamento processuale che vengono in gioco nel caso di giudicati contrastanti, il codice di procedura penale disciplina i mezzi straordinari di impugnazione utili a superare anche la cd. inviolabilità del giudicato per esigenze di giustizia sostanziale, a garanzia di quella che in dottrina è stata chiamata la “decisione giusta”. Tra questi strumenti vi è quello della revisione della sentenza irrevocabile di condanna (artt. 629 ss. c.p.p.). Secondo le regole generali in materia, in caso di accoglimento di una richiesta di revisione, la Corte d’Appello revoca la sentenza che ha riconosciuto la responsabilità dell’imputato e pronuncia il proscioglimento ordinando altresì la restituzione di quanto pagato in esecuzione della condanna (art. 639 c.p.p.).

 

Proprio questo effetto sperava di ottenere la società con il ricorso presentato alla Corte nella fattispecie in esame.

 

 

2. Il caso concreto e le motivazioni del ricorso in Cassazione

 

Il caso riguarda un classico esempio di infortunio sul lavoro: il dipendente di una s.p.a. (successivamente trasformata in s.r.l.) cadeva a causa di un non corretto fissaggio di un portone scorrevole e si procurava, sul luogo di lavoro, lesioni gravi così come definite dall’art. 583 c.p.

 

Per tali fatti la Pubblica accusa contestava il reato di lesioni colpose (art. 590, comma 3, c.p.) nei confronti del delegato dal datore di lavoro alla sicurezza e del custode dello stabilimento.

 

La Procura formulava altresì imputazione nei confronti dell’ente per l’illecito di cui all’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, che come noto disciplina appunto la responsabilità amministrativa dell’ente per omicidio o lesioni colpose con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

 

Nei confronti dell’ente tratto a giudizio il procedimento veniva definito nel 2018 con sentenza di patteggiamento (art. 63 d.lgs. 231/2001 che a sua volta richiama le disposizioni del codice di rito), essa successivamente diveniva irrevocabile.

 

Tre anni dopo – nel 2021 – si chiudeva anche il primo grado di giudizio nei confronti delle persone fisiche coinvolte che, stando al dispositivo della pronuncia, venivano assolte con formula ampiamente liberatoria, perché il fatto “non sussiste” (art. 530 c.p.p.). Anche questa sentenza diventava irrevocabile.

 

A seguito del passaggio in giudicato della sentenza liberatoria per le persone fisiche, l’ente proponeva istanza di revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta emessa nei suoi confronti nel 2018. L’istanza era proposta ex artt. 629 ss. c.p.p. e 73 d.lgs. n. 231/2001.

 

La Corte d’Appello, però, con ordinanza del 2022 dichiarava inammissibile l’istanza di revisione, ritenendo insussistenti i presupposti per l’applicazione dell’istituto.

 

Contro tale decisione l’ente proponeva ricorso per Cassazione argomentando, in sintesi, che la sentenza emessa nel 2021 nei confronti delle persone fisiche avrebbe escluso la sussistenza del reato presupposto dell’illecito disciplinato dal d.lgs. n. 231/2001. E ciò, secondo il ricorrente, in quanto il giudice, pronunciandosi sulla responsabilità delle persone fisiche, le avrebbe assolte con una formula – il fatto non sussiste – che escluderebbe in radice la condotta di reato.

 

La Corte di Cassazione nel decidere sul ricorso proposto dall’ente deve prendere posizione sul valore che potrebbe avere – ai fini della revoca della sentenza di condanna/patteggiamento emessa nei confronti della persona giuridica – l’eventuale pronuncia assolutoria intervenuta nei confronti delle persone fisiche per il reato presupposto della responsabilità dell’ente. Problema questo che si pone nella prassi soprattutto se il procedimento per l’ente e i suoi apicali o subordinati non viene condotto in modo simultaneo.

 

 

3. Due questioni preliminari: revisione del patteggiamento e revisione delle sentenze che riconoscono una responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001

 

Prima di pronunciarsi su questa questione, il giudice della legittimità risolve in modo puntuale e sintetico due ulteriori problemi preliminari: i) quello della applicabilità dell’istituto della revisione nel caso di patteggiamento; ii) quello dell’applicabilità della revisione con riferimento a condanne emesse nei confronti dell’ente.

 

Con riferimento al primo aspetto, la Cassazione, in piena conformità con i precedenti in materia, ritiene che il contrasto di giudicati a cui si riferisce l’art. 630, comma 1, lettera a), c.p.p. (nel disciplinare la revisione) può sussistere anche “tra l’accertamento contenuto in una sentenza di patteggiamento e quello contenuto in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario” (§ 2). L’art. 629 c.p.p. (Condanne soggette a revisione), infatti, prevede espressamente la revisione delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti.

 

Per quanto attiene al secondo dei profili preliminari, relativo alla revisione a favore delle condanne contro l’ente, la Corte in sentenza scrive che “è ovvio che tale procedura possa essere attivata anche nell’ambito della responsabilità amministrativa degli enti, dovendosi estendere agli enti tutte le garanzie previse per il condannato in quanto compatibili” (§ 2) ex art. 35 d.lgs. 231/2001.

 

 

4. Sul presupposto, ai fini della revisione, dell’incompatibilità del “fatto storico” accertato nei provvedimenti passati in giudicato

 

Risolte così le questioni preliminari, la Suprema Corte ricostruisce i presupposti per la sussistenza del cd. contrasto tra giudicati rilevante ai fini della revisione ex art.  630, comma 1, lettera a), c.p.p.

 

Più nel dettaglio la Cassazione, rifacendosi ai precedenti in materia, osserva che “il giudizio di revisione non può essere fondato sulla incompatibilità di due giudicati, a meno che non ci sia prova che tale incompatibilità riguardi il fatto storico” (§ 2).

 

Dunque, una richiesta di revisione può essere accolta solo laddove le pronunce passate in giudicato presentino una «oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze» a nulla rilavando un’eventuale «contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni» né l’errore «sulla valutazione del fatto» (§ 2, in cui si richiamano Cass. pen. sez. I, n. 8419 del 2017; Cass. pen. sez. VI, n. 488 del 2017).

 

 

5. La decisione con riferimento al caso di specie: nei confronti delle persone fisiche manca la posizione di garanzia, il fatto storico ricostruito nei due giudizi però non è incompatibile

 

Sulle base di tali premesse, con riferimento al caso in analisi la Corte considera che il “fatto storico” posto a fondamento della sentenza di patteggiamento emessa nei confronti dell’ente è rappresentato dalla “esistenza di un infortunio occorso sul luogo di lavoro” ai danni della persona offesa.

 

Al contempo, nella successiva sentenza di assoluzione adottata a favore delle persone fisiche imputate “non si è negato” il “fatto” (cioè la caduta di un portone scorrevole fissato male che ha cagionato le lesioni alla vittima) ma si è escluso che “i due imputati rivestissero una posizione di garanzia”. Infatti, rileva la Cassazione, nella sentenza di primo grado che aveva escluso la responsabilità per le persone fisiche il giudice di merito aveva usato una formula assolutoria (“il fatto non sussiste”) che non corrispondeva a “quanto argomentato in motivazione”: il fatto di reato, in definitiva, era da intendersi accertato seppur non fosse “ascrivibile alla responsabilità” delle persone fisiche coinvolte nel processo (§ 2).

 

In ultimo, la Corte ricorda che in caso di assoluzione della persona fisica imputata per una causa diversa dalla insussistenza del reato presupposto non consegua “automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente” per l’illecito amministrativo poiché per la responsabilità della persona giuridica, ai sensi dell’art. 8 d.lgs. n. 231/2001, “deve essere affermata anche nel caso in cui l’autore del suddetto reato non sia stato identificato”  (§ 2, in cui si riprende quanto statuito da Cass. pen. sez. V, n. 20060 del 2013).

 

 

6. Con la sentenza in commento la Corte fa applicazione dei procedenti di legittimità in materia di revisione e di autonomia della responsabilità dell’ente, ancora aperto però il dibattito sull’art. 8 d.lgs. 231/2001

 

Per quanto sopra la Corte, dalla disamina del ricorso, trae il principio secondo il quale «in caso di revisione della sentenza avente ad oggetto la responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/01 per contrasto di giudicato – art. 630, comma 1, lett. a) cod. proc. pen. – ove in separato giudizio si sia pervenuti all’assoluzione della persona fisica per il reato presupposto, è sempre necessario verificare se la ricorrenza del fatto illecito sia stata accertata, discendendo la inconciliabilità del giudicato solo dalla negazione del fatto storico e non anche dalla mancata individuazione della persona fisica del suo autore. Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001, la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato».

 

Con una simile conclusione il giudice della legittimità si pone in continuità sia rispetto a precedenti giurisprudenziali aventi ad oggetto i presupposti per la revisione (disciplinata dal codice di procedura penale) ma anche con quelli in materia di responsabilità autonoma dell’ente rispetto a quella della persona fisica ex art. 8 d.lgs. 231/2001.

 

Seppur secondo la lettura corrente questa norma chiarisca come quella dell’ente sia una responsabilità autonoma rispetto a quella della persona giuridica, d’altra parte, però, nella interpretazione di tale “autonomia” bisognerebbe adottare una certa cautela in quanto, nel disposto normativo attuale, la responsabilità della persona giuridica presuppone pur sempre che un reato si sia verificato e dunque che esso venga accertato. Proprio le criticità che si annidano sotto questa norma di raccordo tra le responsabilità di persona fisica e giuridica hanno fatto sorgere un dibattito in dottrina sulla inadeguatezza di questa disposizione.

 

Da una parte vi sono voci che evidenziano l’utilità di un “ampliamento” dell’ambito applicativo della disposizione e dunque sostengono l’esigenza di accentuare l’autonomia della responsabilità della persona giuridica.

 

Tra gli argomenti a sostegno di tali proposte vi è quello correlato all’esigenza di accertare – nell’ambito dei reati colposi – una responsabilità per la società anche nei casi in cui manchino profili di colpa in capo alle singole persone fisiche ma al contempo sussista una colpa di organizzazione per l’ente.

 

Un ulteriore argomento a sostegno dell’esigenza di allargare il campo di applicazione dell’art. 8 d.lgs. 231/2001 viene elaborato partendo dal considerare quelle fattispecie di reato che si protraggono per lunghi archi temporali all’interno delle società. In questi casi si evidenzia come l’accertamento dei singoli profili di responsabilità in capo alle persone fisiche (che nel frattempo escono ed entrano nella compagine sociale, mutano ruoli e mansioni, etc.) sia davvero complicato in sede processuale, a dispetto di un (forse) più semplice accertamento di prolungate carenze organizzative interne dell’ente.

 

A sostegno dell’esigenza inversa (di “restringere” l’ambito di applicabilità della norma), invece, si segnalano quelle impostazioni che evidenziano come la responsabilità dell’ente sia un tertium genus di responsabilità da ricollegare, sempre, al reato che (solo) la persona fisica può realizzare.

 

Nella stessa direzione si pongono, inoltre, quelle voci che evidenziano come – proprio a causa dell’attuale disposto dell’art. 8 d.lgs. 231/2001 – non sia possibile dar rilievo, per mandare l’ente esente da pena, a istituti che invece escludono la sanzione per le persone fisiche (quale quello dell’art. 131 bis c.p.). Di conseguenza, questa norma, nel fondare l’autonomia della responsabilità della società, creerebbe indebite discrasie all’interno di un sistema di responsabilità, quello dell’ente, pensato in stretta correlazione con un altro sistema di responsabilità, quello della persona fisica.