Riforma della prescrizione e Decreto 231: una prospettiva nel silenzio della legge

di  Mario  Iannuzziello,  Dottore di Ricerca in Diritto penale

 

 

 

 

La modifica della prescrizione del reato ad opera della riforma Cartabia innesta su un istituto di natura sostanziale, quale è una causa di estinzione del reato, un meccanismo di natura processuale, ossia l’improcedibilità dell’azione.

 

Giostrando tra sospensione e interruzione della prescrizione, la legge n. 134/21 ha introdotto un nuovo istituto, la cessazione del corso della prescrizione (art. 161bis c.p.), che scatta ope legis all’emanazione della sentenza di primo grado, tanto di condanna quanto di assoluzione. Pertanto, l’estinzione del reato per prescrizione può realizzarsi soltanto in un momento precedente alla pronuncia conclusiva del primo grado di merito. Parallelamente, tuttavia, sempre la legge n. 134/21 introduce nel codice di procedura penale l’art. 344bis, rubricato Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, che rende il tempo condizione di procedibilità dell’azione penale.

 

Lo scorrere del tempo, quindi, non spiega più effetti sul reato dopo la sentenza di primo grado, ma determina il prosieguo ulteriore del processo, similmente a quanto accade nella disciplina dei termini massimi della custodia cautelare (art. 303 c.p.p.), dove la misura personale perde efficacia se determinate attività non sono poste in essere in un determinato tempo.

 

La riforma della prescrizione, di cui questa nuova condizione di improcedibilità è parte integrante, mira, per un verso, a diminuire i reati che si estinguono per intervenuta prescrizione in appello e in Cassazione e, per altro verso, a definire normativamente la ragionevole durata del processo.

 

A fronte di tutto ciò, però, la legge n. 134/21 non interviene sulla prescrizione nel sistema 231, ma pare che tali novazioni sostanziali e processuali possano riverberarsi anche sull’illecito amministrativo dipendente da reato e sul processo in cui è imputato l’ente, come evidenzia anche la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione del 3 novembre 2021, n. 60/21.

 

1. La cessazione della prescrizione e l’improcedibilità dell’azione

 

L’impianto della riforma, dunque, si muove su due direttrici: una sostanziale e una processuale.

 

Sotto il primo versante, l’introduzione dell’istituto della cessazione della prescrizione ha inteso superare la disciplina della sospensione del corso della prescrizione, come modificata dalla legge n. 3 del 2019 (meglio nota come riforma Bonafede). Quest’ultima, infatti, è intervenuta sull’art. 159 c.p.: accanto alle tradizionali ipotesi di sospensione previste al comma 1, ha modificato il comma 2, prevedendo che il corso della prescrizione rimanesse sospeso dalla sentenza di primo grado (di condanna o di assoluzione) o dal decreto penale di condanna fino a quando il provvedimento che definiva il giudizio fosse divenuto esecutivo o il decreto penale di condanna irrevocabile.

 

La riforma Cartabia modifica tale disciplina, distinguendo tra tempo dell’oblio e tempo del processo, come si legge nella Relazione finale della Commissione Lattanzi.

 

Il tempo dell’oblio corrisponde al tempo necessario all’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, che decorre dalla consumazione del reato ex art. 158 c.p. e trova il proprio termine con la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione.

 

Pertanto la legge n. 134/21 ha abrogato il comma 2 dell’art. 159 c.p. e introdotto l’art. 161bis c.p. secondo cui: “Il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado. Nondimeno, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento”.

 

L’emanazione della sentenza di primo grado, quindi, da fatto processuale che portava alla sospensione della prescrizione (riforma Bonafede), diviene un fatto processuale che fa cessare il corso della prescrizione (riforma Cartabia).

 

L’art. 161bis c.p. introduce, infatti, un nuovo istituto nella disciplina della prescrizione, che si affianca alla sospensione e all’interruzione e comporta quasi un mutamento di paradigma: il reato potrà estinguersi per intervenuta prescrizione solo durante il processo di primo grado, ossia in un momento antecedente alla sentenza che definisce il primo grado di merito. Successivamente, infatti, non potrà più essere dichiarata l’estinzione del reato per il decorso del tempo, ma l’improcedibilità dell’azione penale, segnando così il passaggio dal tempo dell’oblio, cioè dal diritto sostanziale, al tempo del processo, ossia al diritto processuale.

 

Il tempo del processo, infatti, è prescritto dall’art. 344bis c.p.p. e si modula secondo il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), come delineato dalla legge n. 89 del 2001, meglio nota come Legge Pinto, con riferimento ai giudizi di impugnazione.

 

L’art. 344bis c.p.p. prevede al comma 1 che “La mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”, mentre al comma 2 che “La mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”.

 

Già dalla lettera della norma appare chiaro quel mutamento di paradigma indiziato dalla cessazione della prescrizione di cui all’art. 161bis c.p.: il tempo, infatti, non incide più sul reato, ma sul processo ossia sulla potestà punitiva dello Stato, tanto nell’iniziare quanto nel continuare l’azione penale.

 

L’art. 334bis c.p.p., poi, individua il dies a quo da cui decorre il termine rilevante ai fini dell’improcedibilità (comma 3), delle eccezioni nei casi di particolare complessità del processo di impugnazione (comma 4) e il relativo mezzo di impugnazione contro l’ordinanza che in tali casi accorda la deroga al termine del giudizio di appello (comma 5). Ancora, al comma 6 si prevedono delle ipotesi di sospensione dei termini di due anni per l’appello e di un anno per la Cassazione, mentre al comma 7 è concessa la facoltà all’imputato di rinunciare alla declaratoria di improcedibilità dell’azione con la conseguente prosecuzione del processo, similmente a quanto accade all’art. 157 c.p., che attribuisce all’imputato la possibilità di rinunciare alla prescrizione. Infine, il comma 9 stabilisce che questa disciplina sull’improcedibilità dell’azione non si applica “nei procedimenti per i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti”.

 

La cessazione della prescrizione e l’improcedibilità dell’azione, pertanto, innovano profondamente lo statuto della causa di estinzione del reato susseguente al decorso del tempo e tale innovazione, pur nel silenzio della legge, è destinata a coinvolgere anche i fatti e i processi relativi alla responsabilità da reato degli enti di cui al Decreto 231.

 

2. La prescrizione dell’illecito amministrativo dipendente da reato e le disposizioni processuali applicabili all’ente

 

Il d.lgs. n. 231/01, come noto, prevede un regime di prescrizione ad hoc per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, commesso nell’interesse o nel vantaggio dell’ente.

 

L’art. 22 stabilisce un termine di cinque anni per la prescrizione delle sanzioni amministrative (comma 1), che viene interrotto dalla richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e dalla contestazione dell’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 59 d.lgs. n. 231/01 (comma 2).

 

Queste due cause di interruzione della prescrizione, tuttavia, operano in maniera differente.

 

Il comma 3, infatti, prevede che a seguito della richiesta di applicazione della cautela interdittiva (art. 45 d.lgs. n. 231/01), a prescindere dal suo accoglimento o dal suo rigetto, inizia un nuovo periodo di periodo di prescrizione di cinque anni. Il comma 4, invece, stabilisce che la contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato è idonea a bloccare la prescrizione fino a quando la sentenza che definisce il giudizio non passa in giudicato.

 

Quest’ultima disposizione si modella sulla disciplina civilistica della prescrizione, che conosce soltanto l’istituto dell’interruzione e non anche quello della sospensione, prevedendo un unico lasso di tempo necessario per condurre all’estinzione della sanzione, senza differenziazione in ragione al reato presupposto e, dunque, al tipo di illecito da questo dipendente, ma soprattutto pare mostrare una certa consonanza con le varie riforme che sono intervenute sulla prescrizione nel Codice penale.

 

Fin dalla sua introduzione nel 2001, il sistema 231 ha delineato un doppio registro per la prescrizione del reato presupposto e dell’illecito amministrativo.

 

Da un canto, l’ente può essere tratto a processo se il reato, che costituisce il presupposto logico dell’illecito, non è estinto per prescrizione (art. 60 d.lgs. n. 231/01, rubricato Decadenza della contestazione). Pertanto, solo in questo caso si può legittimamente procedere alla contestazione di cui all’art. 59 d.lgs. n. 231/01, che cristallizza il momento in cui si interrompe la prescrizione della sanzione e resta tale fino al passaggio in giudicato della sentenza (art. 22 d.lgs. n. 231/01).

 

Dall’altro, di conseguenza, lo scattare della prescrizione per il reato durante il processo è indifferente alle sorti dell’illecito amministrativo: nel procedimento penale contro la persona fisica, infatti, la prescrizione continuava a decorrere, mentre in quello contro la persona giuridica era interrotta.

 

Pertanto, le riforme che hanno interessato questa causa di estinzione del reato pare abbiano voluto introdurre nel Codice penale una disciplina similare a quella prevista nel Decreto 231. Se la riforma Bonafede tendeva ad uniformare prescrizione penale e prescrizione civile, la riforma Cartabia introduce la cessazione della prescrizione, che – per ratio – ricorda l’art. 22 d.lgs. n. 231/01, e rende improcedibile l’azione penale, che – per effetti – pare richiamare l’art. 60 d.lgs. n. 231/01.

 

Al di là di queste assonanze concettuali tra il Codice penale e il Decreto 231, la riforma della prescrizione e la nuova causa di improcedibilità dell’azione paiono poter spiegare effetti anche sul sistema 231, come sottolinea anche la Relazione dell’Ufficio del Massimario del 3 novembre 2021, n. 60/21.

 

L’art. 34 d.lgs. n. 231/01, infatti, estende al procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato le norme del Codice di procedura penale in quanto compatibili, mentre l’art. 35 d.lgs. n. 231/01 rende applicabili alla persona giuridica imputata le disposizioni previste per l’imputato persona fisica, sempre in quanto compatibili.

 

Di conseguenza, tanto la nuova causa di improcedibilità dell’azione per il superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (art. 344bis c.p.p.) quanto il nuovo istituto della cessazione della prescrizione (art. 161bis c.p.) paiono risultare compatibili con il sistema 231.

 

Tale compatibilità sembra potersi ricavare da una delle ragioni sottese all’intervento riformatore della legge n. 134/21: garantire la ragionevole durata del processo. Questo obiettivo, infatti, è anche alla base della disciplina della prescrizione prevista dal Decreto 231: il termine di cinque anni di cui all’art. 22, fisso e uguale per tutti gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, è orientato a circoscrivere l’alea della responsabilità dell’ente (e dell’applicabilità delle sanzioni) in un tempo quanto più congruo con l’attività d’impresa, che necessita di un quadro giuridico stabile per programmare e mettere in opera il proprio business.

 

3. Una prospettiva ermeneutica per l’applicabilità dell’art. 344bisp.p. anche all’ente, nel silenzio della legge

 

Il legislatore del 2021, che è intervenuto in maniera così penetrante sulla disciplina della prescrizione, ha tralasciato le ricadute di tale novazione (sostanziale e processuale) sul sistema 231.

 

In limine, è da considerare che il nuovo istituto della cessazione della prescrizione (art. 161bis c.p.), incidendo sul reato potrebbe condurre a un’estensione della sfera di applicabilità dell’art. 60 d.lgs. n. 231/01. Infatti, stante l’autonomia tra il giudizio contro l’autore del reato presupposto e il giudizio contro l’ente (ex multis, artt. 5, 6, 8, 34 e 35 d.lgs. n. 231/01), non potrebbe teoricamente escludersi che la contestazione dell’illecito amministrativo, sempre nel termine dei cinque anni (art. 22 d.lgs. n. 231/01), possa avvenire anche dopo la sentenza di primo grado, afferente ad un reato presupposto, che a seguito della riforma del 2021 non può più prescriversi in secondo grado e in Cassazione.

 

Ancora, è da segnalare che il termine di prescrizione del reato spira con la sentenza di primo grado, mentre quello dell’illecito amministrativo con la sua contestazione, creando una consonanza di effetti: in ambedue i casi, infatti, al verificarsi del fatto processuale che interrompe la prescrizione, questa non riprende più il suo corso.

 

Tuttavia, i termini concreti della questione attengono al rapporto tra improcedibilità dell’azione (art. 344bis c.p.p.) e prescrizione dell’illecito amministrativo (art. 22 d.lgs. n. 231/01).

 

La Relazione dell’Ufficio del Massimario, infatti, declina questi termini secondo tre possibili scenari.

 

Il primo scenario vede la diretta applicabilità della causa di improcedibilità dell’azione nel processo in cui è imputato l’ente: l’art. 34 d.lgs. n. 231/01, come visto, estende le norme del processo penale anche all’accertamento dell’illecito amministrativo dipendente da reato.

 

Il secondo scenario, invece, rintraccia soltanto una compatibilità tra l’improcedibilità dell’azione e la prescrizione del reato, assumendo entrambe una valenza autonoma così da evitare che la riforma del 2021 esplichi effetti nel processo contro l’ente.

La Relazione, tuttavia, riconosce che tale ipotesi contrasta con la previsione dell’art. 34 d.lgs. n. 231/01, che impone di valutare la compatibilità dei diversi istituti processuali che vengono in rilievo, fra cui vi è anche la nuova causa di improcedibilità dell’azione.

 

Il terzo scenario, infine, pone l’accento sul dato testuale dell’art. 344bis, laddove fa riferimento all’improcedibilità dell’azione penale, e ne esclude l’ammissibilità nel processo 231. Secondo tale prospettiva, l’azione penale sarebbe solo quella contro l’imputato persona fisica, restando fuori dalla sua nozione l’esercizio di quella contro l’ente.

Anche per tale ricostruzione la Relazione esprime delle riserve: da un lato, il sistema 231 equipara imputato ed ente (art. 35 d.lgs. n. 231/01) e dall’altro il soggetto processuale titolare del potere di iniziativa (cioè il pubblico ministero, art. 55 d.lgs. n. 231/01) così come quello della competenza (ossia il giudice penale, art. 36 d.lgs. n. 231/01) coincidono con i soggetti processuali a cui spetta l’accertamento del reato presupposto, che segue anche la medesima disciplina (art. 34 d.lgs. n 231/01).

 

Tra questi tre scenari, pertanto, sembra che sia da preferire il primo.

 

L’art. 344bis c.p.p., infatti, è una disposizione di natura processuale per cui sembrano non rinvenirsi ragioni che possano rendere incompatibile tale norma con l’art. 34 d.lgs. n. 231/01: anzi, se si ritenesse inapplicabile l’improcedibilità dell’azione nel processo contro l’ente verrebbe negata la ratio che ha condotto alla riforma del 2021 e su cui nel 2001 è stata costruita la disciplina della prescrizione per l’illecito amministrativo dipendente da reato (art. 22 d.lgs. n. 231/01).

 

L’ente, infatti, verrebbe sottoposto a un processo di durata non prevedibile: se fino alla riforma Cartabia questa era una eventualità quasi fisiologica (rectius patologica) del processo penale, ora, invece, la fissazione dei termini di fase renderebbe tale eventualità eccentrica rispetto alla ratio della legge n. 134/21. Inoltre, come pone in evidenza la Relazione dell’Ufficio del Massimario, condurrebbe anche alla violazione sia del principio di parità di trattamento, stante l’assimilazione tra ente e imputato (art. 35 d.lgs. n. 231/01) sia di quello della ragionevole durata del processo, a cui è improntata l’intera riforma della prescrizione.

 

La persona fisica, infatti, si gioverebbe dei termini di fase dei giudizi di impugnazione, che – se superati – rendono l’azione improcedibile, mentre la persona giuridica non se ne potrebbe avvalere.

 

 

In conclusione e guardando con favore quanto si legge nella Relazione dell’Ufficio del Massimario, sembra che la causa di improcedibilità dell’azione per il superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione sia applicabile anche nel sistema 231.