Giustizia riparativa ed enti: il detto e il non detto della riforma Cartabia

di  Mario  Iannuzziello,  Dottore di Ricerca in Diritto penale

 

 

 

 

Il decreto legislativo n. 150 del 2022, emanato in attuazione della legge delega n. 134 del 2021, meglio noto come riforma Cartabia, tra le varie modifiche al diritto e al processo penale introduce nell’ordinamento italiano la Disciplina organica della giustizia riparativa, in attuazione della direttiva dell’Unione europea 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e in conformità alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec (2018)8 sulla giustizia riparativa in materia penale e ai Principi base sull’uso dei programmi giustizia riparativa in ambito penale delle Nazioni Unite del 2002 (ECOSOC Res. 12/2022).

 

Si tratta di una novazione particolarmente significativa poiché il legislatore definisce cosa è da intendersi per giustizia riparativa, individua i soggetti legittimati a prendervi parte e delinea gli obiettivi dei programmi di Restorative Justice.

 

Questa normativa è stata pensata e costruita secondo il diritto penale nucleare, rivolgendosi principalmente alle persone fisiche (vittima, reo, gruppi parentali ed esponenziali) coinvolte nella vicenda criminale, ma prevede la possibilità che ai programmi riparativi possa partecipare anche la persona giuridica. La disciplina, infatti, individua le modalità con cui l’ente manifesta il consenso a partecipare al programma; inoltre, la Relazione illustrativa assimila l’ente sia alla vittima del reato sia – con maggiore puntualità – alla persona indicata come autore dell’offesa.

 

1. I soggetti del percorso riparativo. Lo scarto tra definizioni legali e relazione illustrativa

 

L’art. 42 d.lgs. n. 150/22 formula le definizioni legali di giustizia riparativa, vittima del reato e persona indicata come autore dell’offesa.

 

La giustizia riparativa è definita come “ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”.

 

Si tratta di una definizione onnicomprensiva che – oltre a concedere alla mediazione una portata generale nell’ordinamento penale – si presenta adatta a sussumervi sia il fatto commesso dalla persona fisica sia quello commesso nell’interesse o nel vantaggio della persona giuridica, anche se la nozione di vittima del reato e di persona indicata come autore dell’offesa paiono in prima battuta escludere l’ente.

 

Infatti, la vittima del reato è qualificata come “la persona fisica che ha subito direttamente dal reato qualunque danno, patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”.

 

La persona indicata come autore dell’offesa, poi, è “la persona indicata come tale dalla vittima, anche prima della proposizione della querela; la persona sottoposta alle indagini; l’imputato; la persona sottoposta a misura di sicurezza personale; la persona condannata con pronuncia irrevocabile; la persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344 -bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato”.

 

In nessuna di queste definizioni vi è un riferimento esplicito alla persona giuridica, ma il comma 2 dell’art. 42 d.lgs. n. 150/22 esplicita che “i diritti e le facoltà attribuite alla vittima del reato sono riconosciute anche al soggetto giuridico offeso dal reato”.

 

Pare, dunque, palesarsi la possibilità che nelle definizioni di giustizia riparativa, di vittima del reato e di persona indicata come autore dell’offesa possa esser ricompresa anche la persona giuridica, con un distinguo preliminare.

 

La Relazione illustrativa specifica che l’equiparazione tra vittima e soggetto giuridico offeso vale ad estendere i diritti di partecipazione ai programmi di giustizia riparativa anche agli enti con o senza personalità giuridica, senza, tuttavia, fare alcun riferimento al d.lgs. n. 231/01.

 

Contrariamente, con riguardo all’autore dell’offesa, la Relazione illustrativa precisa che questa nozione si riferisce tanto alla persona fisica quanto all’ente, con o senza personalità giuridica, e richiama l’art. 35 d.lgs. n. 231/01, che estende all’ente le disposizioni processuali relative all’imputato in quanto compatibili. Infatti, in ragione dell’opzione di politica criminale sottesa alla Disciplina organica, che non conosce preclusioni di accesso ai programmi di giustizia riparativa per titoli di reato, viene estesa la possibilità di partecipazione anche agli enti nei casi di responsabilità amministrativa da reato ex d.lgs. n. 231/01, legata – ad esempio – al delitto di omicidio colposo (art. 589 c.p.) oppure di lesioni personale colpose (art. 590 c.p.).

 

Pertanto, l’art. 48 d.lgs. 150/22, che delinea le caratteristiche del consenso (personale, libero, consapevole, informato, in forma scritta, sempre revocabile anche per fatti concludenti) per aderire al programma di Restorative Justice, al comma 2 stabilisce che per l’ente è espresso dal legale rappresentate pro tempore o da un suo delegato.

 

Emerge, quindi, a dispetto delle nozioni legali sui soggetti legittimati ad accedere ai programmi di giustizia riparativa, la possibilità che anche la persona giuridica possa prendervi parte a seguito della commissione di un illecito amministrativo dipendente da reato

 

2. L’esito riparativo nel d.lgs. n. 150/22 e le condotte riparatorie nel d.lgs. n. 231/01

 

La Disciplina organica all’art. 42 definisce anche l’esito riparativo come “qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti”.

 

Successivamente, all’art. 56, precisa che l’esito a cui conduce il procedimento di mediazione può essere tanto simbolico quanto materiale. Il primo consiste in dichiarazioni o scuse formali, impegni circa i comportamenti da tenere e/o frequentazioni di luoghi o persone. Il secondo, invece, attiene al risarcimento del danno, alle restituzioni, all’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze del reato o evitare che siano portate a conseguenze ulteriori.

 

L’esito riparativo materiale sembra perciò richiamare alcune delle condotte riparatorie già previste nel Decreto 231.

 

Come noto, l’art. 12 d.lgs. n. 231/01 riconosce efficacia attenuante sulla sanzione pecuniaria al risarcimento integrale del danno e all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato o all’efficace azione in tal senso. Alla stessa condotta, poi, se posta in essere insieme con l’eliminazione delle carenze organizzative e con la messa a disposizione del profitto ai fini della confisca, l’art. 17 d.lgs. n. 231 – rubricato ‘Riparazione delle conseguenze del reato’ – connette l’esenzione dalle sanzioni interdittive.

 

Le condotte che costituiscono l’esito riparativo materiale, dunque, già sono contemplate nel Decreto 231, ma la loro previsione come conclusione di un percorso di giustizia riparativa tra vittima ed ente/autore del reato pare seguitare la linea di politica criminale della Disciplina organica più che innovare il sistema 231.

 

Infatti, lo scopo della Restorative Justice – come declinata nell’ordinamento italiano – è il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione dell’autore dell’offesa e la ricostruzione dei legami con la comunità (art. 43 co. 2 d.lgs. n. 150/22), che se inverato nell’accordo riparativo conduce a conseguenze giuridiche diverse a seconda della fase procedurale o processuale in cui interviene. Conseguenze, tuttavia, attagliate sulla persona fisica: quali attenuazione della pena nella misura massima di un terzo (art. 62 n. 6 c.p.), estinzione del reato procedibile a querela remissibile (art. 120 c.p.) e alcuni benefici penitenziari quali l’assegnazione al lavoro all’esterno o la concessione di permessi premio (art. 15bis l. n. 354/75).

 

Diversamente, le condotte riparative previste nel Decreto 231 rilevano soltanto ai fini sanzionatori ed è mancata da parte della legge delega n. 134/21 e quindi del decreto legislativo 150/22 una previsione circa gli effetti per l’ente che partecipa a un programma riparativo e si conclude con esito riparativo.

 

3. Il detto e il non detto su giustizia riparativa ed enti

 

I rapporti tra la Disciplina organica e il Decreto 231, dunque, si muovono tra detto e non detto: a fronte del diritto di partecipazione dell’ente ai programmi di giustizia riparativa sancito dall’art. 48, co. 2 d.lgs. n. 150/22 non è dato riscontrare quale sia la conseguenza giuridica dell’esito riparativo.

 

Pertanto, si possono formulare due ipotesi non alternative fra loro.

 

La prima potrebbe essere nel senso di non riconoscere alcuna rilevanza in termini di responsabilità giuridica per l’ente che ha condotto un percorso con le vittime del suo illecito amministrativo conclusosi con esito riparativo, spostando così il piano sulla responsabilità sociale di impresa.

 

L’ente, quindi, potrebbe scegliere di svolgere un programma di Restorative Justice per ricostruire il proprio rapporto con la comunità in cui opera e con chi ha subito le conseguenze del suo illecito: in questo modo, potrebbe giocare un ruolo anche l’esito riparativo simbolico. Tra le condotte volte ad integrarlo, infatti, si annoverano anche gli obblighi comportamentali rivolti al pubblico, che potrebbero consistere anche in un miglioramento dei codici etici.

 

La seconda, invece, potrebbe far leva sui profili di compatibilità tra il procedimento penale e quello 231 (art. 34 d.lgs. n. 231/01) e tra le disposizioni riferite all’ente e quelle riferite all’imputato (art. 35 d.lgs. n. 231/01).

 

L’art. 129bis c.p.p., introdotto nel Codice di rito per dar seguito alla Disciplina organica sulla giustizia riparativa, consente al giudice l’invio al Centro di giustizia riparativa della vittima e dell’autore del reato qualora reputi che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato. Pertanto, potrebbe ritenersi che anche l’ente imputato possa essere inviato dinanzi al mediatore per condurre un percorso riparativo in cui l’esito (simbolico o materiale) potrà essere apprezzato nel processo a suo carico se interviene nelle sequenze procedimentali scandite dal Decreto 231 ossia prima dell’apertura del dibattimento (artt. 16 e 17) oppure nel termine ulteriore assegnato ai sensi dell’art. 65.

 

Gli effetti giuridici, poi, sarebbero quelli previsti dal Decreto 231 per le condotte riparatorie ivi previste ossia attenuazione della sanzione pecuniaria ed esenzione da quella interdittiva. A parità di risultato, ciò che differenzierebbe la modalità ordinaria da questa è l’iniziativa. In quella prevista dal d.lgs. n. 231/01 è rimessa alla volontà dell’ente, mentre in quella descritta dall’art. 129bis c.p.p. è il giudice che promuove il favor reparandi, che si riverbera positivamente anche sull’ente.

 

 

 

 

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