La Cassazione sull’idoneità del MOG adottato ex post ai fini dell’eliminazione delle carenze organizzative di cui all’art. 17 d.lgs. 231/2001

di  Giuseppe Natale,  dottorando  di ricerca in Diritto penale

 

 

 

1. Introduzione

Con la sentenza n. 47564 del 9 novembre 2023, la Corte di Cassazione, in sede cautelare, si è pronunciata sulla portata applicativa dell’art. 17 d.lgs. 231/2001, norma che, come noto, rappresenta uno snodo centrale dell’anima riparatoria che permea il complessivo sistema del d.lgs. 231/2001.

 

La pronuncia si sofferma sul requisito di cui alla lett. b) del suddetto articolo, ribadendo, in conformità con un indirizzo alquanto consolidato nella giurisprudenza di merito, la necessità che l’adozione ex post del MOG elimini concretamente le carenze organizzative che hanno rappresentato la causa della commissione dell’illecito. Solo in tal caso, dunque, l’ente potrà beneficiare dell’esclusione dall’applicazione delle sanzioni interdittive.

 

La vicenda riguardava l’illecito amministrativo di cui all’art. 24-ter, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001, in relazione alla commissione del delitto di associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. In particolare, la Corte ha ritenuto inadeguato, ai fini della valutazione positiva delle modifiche organizzative adottate, la mancata rimozione da parte della società indagata di un dirigente – associato per delinquere – che, mantenendo una posizione di vertice, persisteva in condotte finalizzate a consolidare gli effetti di una truffa connotata dalle medesime caratteristiche del programma criminoso dell’associazione. Si riteneva, perciò, che la riorganizzazione aziendale avesse avuto una natura meramente formale.

 

La sentenza in commento si rivela di particolare interesse per osservare da vicino la dimensione riparatoria della compliance nel ‘sistema 231’ e, nello specifico, le modalità attraverso cui il modello di organizzazione post delictum deve provvedere all’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato la commissione del reato di associazione per delinquere.

 

 

 

 

 

2. La vicenda e la pronuncia della Corte di Cassazione.

Il caso in esame nasce dalla contestazione mossa dalla Procura di Genova nei confronti di una s.p.a. che avrebbe sistematicamente posto a carico dei propri clienti, attraverso la produzione di falsa documentazione, costi o spese doganali superiori agli esborsi effettivamente sostenuti, in modo da ottenere un indebito vantaggio.

Il G.I.P. presso il medesimo tribunale, a seguito della richiesta della Procura, ritenendo sussistenti i gravi indizi del reato associativo, disponeva la misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività di impresa per la durata di sei mesi.

Avverso tale ordinanza presentava appello la società indagata. Il Tribunale della Libertà di Genova, in parziale accoglimento, sostituiva la misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività di impresa con quella della sospensione, per la medesima durata, delle autorizzazioni doganali rilasciate alla società, ritenendo tale misura più proporzionata alla gravità dell’illecito.

Al contempo, però, rigettava il principale motivo d’appello con cui si richiedeva l’inapplicabilità tout court della sanzione interdittiva ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. b), d.lgs. 231/2001 a seguito dell’adozione ex post del MOG, ritenendo che i presidi impiegati fossero concretamente inadeguati a rimuovere le carenze organizzative che avevano determinato la commissione dell’illecito.

 

La società proponeva dunque ricorso per Cassazione, con il quale si doleva, tra le altre cose, del giudizio negativo in ordine all’idoneità del modello organizzativo adottato successivamente alla contestazione dell’illecito.

In via incidentale, si segnala che dalla lettura della sentenza, a dire il vero alquanto scarna nella ricostruzione dei fatti, si evince come la ritenuta inidoneità del MOG si fondasse, prevalentemente, su una circostanza fattuale emergente da una querela sopravvenuta all’adozione del modello.

Nello specifico, la società veniva denunciata, successivamente alle condotte riparatorie, per la commissione di ulteriori truffe connotate dalle medesime caratteristiche del programma criminoso dell’associazione. Tali truffe sarebbero state compiute da uno degli associati a delinquere che continuava a mantenere un ruolo apicale all’interno dell’organigramma societario. Avverso tali considerazioni la società proponeva una duplice critica.

Veniva rilevato, da un lato, come la querela facesse riferimento a un delitto, quello di truffa, diverso rispetto a quello per il quale l’ente era stato sottoposto a misura cautelare (art. 416 c.p.) e sempre rispetto al quale aveva provveduto a riorganizzarsi eliminando il rischio-reato.

Oltretutto, eccepiva la società che, nonostante la notizia di reato fosse pervenuta successivamente alle condotte riparatorie, il Tribunale non avrebbe tenuto conto che i fatti dedotti in querela si riferivano a un periodo antecedente alle misure riorganizzative adottate dall’ente e perciò non indicative dell’inefficacia delle stesse.

La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ritenuto che la concreta inadeguatezza colta dai giudici del merito fosse confermata dalla permanenza in carica del suddetto soggetto apicale, che aveva posto in essere delle condotte nel tentativo di consolidare una truffa corrispondente a quelle oggetto del programma criminoso.

A riguardo, non avrebbe alcun rilievo il differente titolo tra il reato-presupposto e l’illecito successivamente verificatosi, giacché quest’ultimo, essendo un reato fine dell’associazione, rappresenta propriamente una tipica modalità di attuazione del programma del sodalizio e rientra a pieno titolo nei rischi che l’ente deve eliminare attraverso i presidi riorganizzativi.

Analogamente, anche il dato temporale degli artifizi denunciati in querela non rileverebbe. Il fatto che le condotte di falsificazione, con le quali venivano alterati dei dati in danno ai clienti, fossero state compiute prima dell’adozione del modello rappresenterebbe un dato neutro, dal momento che ciò su cui si sofferma il Tribunale è la persistenza delle successive condotte decettive con cui, in riferimento alle falsificazioni già perpetrate, uno degli apicali della società cercava di assicurarsi i profitti di diretta derivazione dei precedenti falsi documentali.

Nel ragionamento della Corte, dunque, le misure di riorganizzazione devono essere apprezzate anche in relazione alla loro efficacia nell’eliminare gli effetti di condotte intraprese ma non ancora portate a compimento con il conseguimento del vantaggio perseguito. I presidi da adottare, perciò, devono impedire non solo la protrazione o la ricaduta nel reato ma anche schermare quelle attività che, per la loro connessione, ne rappresentano il naturale corollario finalistico (sia con riguardo al rischio del reato-fine sia con riguardo all’ottenimento dei relativi profitti)

 

 

 

 

3. Conclusioni. Il giudizio di idoneità del modello adottato dopo la commissione dell’illecito.

Le argomentazioni della Corte si pongono in linea con quella giurisprudenza di merito che osserva come il modello adottato ex post, per potersi dire idoneo a scongiurare la commissione di reati della stessa specie, debba essere valutato non in termini esclusivamente prognostici ed ipotetici, bensì alla luce del dato fattuale desumibile dalla prospettazione accusatoria. (G.I.P. Tribunale di Roma, 2003; G.I.P. Tribunale di Napoli 2007).

 

Ci sarebbe, quindi, una sostanziale differenza tra l’idoneità del modello adottato ex ante rispetto a quello adottato dopo la commissione dell’illecito: i presidi contenuti nel modello, invero, ove vengano adottati non in funzione di prevenzione del rischio, ma successivamente, al verificarsi dell’illecito, non potranno non tenere concretamente conto della situazione che ha favorito la commissione dell’illecito, in modo da eliminarne i precipui fattori che ne hanno dato causa.

 

In questi termini, l’attribuzione di peso ad un determinato fattore di rischio risulta più agevole, giacché il rischio relativo al reato contestato è, di per sé, fisiologicamente alto. L’ente dovrà allora dimostrare di aver schermato quel rischio attraverso appositi presidi che potranno consistere, ove necessario, anche nella riorganizzazione della compagine gestoria dell’ente.

 

Ciò spiega perché nella prassi, specie per imprese di medie e piccole dimensioni, il ricorso crescente ai modelli post-delictum rivesta un’importanza centrale, giacché questi permettono, da un lato, di ridurre in qualche modo l’alea che permea il giudizio di idoneità sul modello ex ante e, dall’altro, di contenere i gravosi oneri di natura finanziaria posticipando l’adozione dei presidi all’eventuale apertura del procedimento penale.

In effetti, anche dopo gli interventi della Suprema Corte nel c.d. caso Impregilo, diretti a perimetrare il controllo del giudice sui modelli preventivi, si riscontra una prassi non pienamente uniforme nel riconoscimento dell’idoneità dei modelli organizzativi adottati ante delictum.

 

Cionondimeno, per quanto i riferimenti contenuti nell’imputazione siano utili a orientare l’adozione di un valido sistema di compliance, è pur necessario che la riorganizzazione dell’ente sia vocata all’effettività e non si esaurisca nell’adozione di modelli dalla valenza solo formale.

 

Nella specifica ipotesi della contestazione dell’associazione a delinquere, la pronuncia in esame chiarisce che, ai fini dell’idoneità del modello ex post, il rischio-reato da arginare, oltre a riferirsi propriamente al delitto associativo, deve estendersi in via naturale anche ai reati-fine, che rappresentano l’esito fisiologico del programma criminoso dell’associazione.

La sentenza risulta particolarmente interessante sul punto, in quanto richiede all’ente – in questa sede in riferimento ai modelli post-delictum – di valutare quale rischio-reato da minimizzare anche quello che si riferisce a delitti-fine non ricompresi nel catalogo dei reati presupposto. L’ente, dunque, dovrebbe predisporre presidi di riorganizzazione atti a scongiurare anche la commissione di reati per i quali non sarebbe direttamente punibile.

Sul tema, quantomeno per i modelli ante delictum, il dibattito è ancora molto attuale. Parte della dottrina si oppone fortemente a tale lettura, ritenendo che imporre all’ente di adottare sistemi di compliance diretti alla prevenzione di tutte le fattispecie presupposto dell’art. 416 c.p. risulterebbe concretamente impossibile e vanificherebbe la funzione stessa del MOG.

Con riguardo al modello ex post, diversamente, l’esistenza della contestazione di un delitto fine, ancorché non presente nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, metterebbe comunque l’ente nelle condizioni di adottare delle specifiche misure di riorganizzazione, senza esporlo a quella irriducibile incertezza in cui si troverebbe nelle ipotesi di modello preventivo.

 

L’ulteriore profilo di interesse su cui si sofferma la sentenza è quello che riguarda l’omessa rimozione dell’apicale, associato per delinquere, come dato ostativo al giudizio di idoneità delle misure riorganizzative.

Sul punto, si deve sottolineare che la Corte non ha ritenuto ex se la permanenza in carica quale indice di mancata eliminazione delle carenze organizzative, ma ha bensì valutato tale dato alla luce delle condotte che tale soggetto, in virtù del mantenimento di quella posizione, ha posto successivamente in essere.

Si è ritenuto, così, che il modello organizzativo non solo debba prevenire la reiterazione del reato associativo (o dei relativi reati-fine) ma anche evitare il compimento di quelle condotte finalizzate all’ottenimento del profitto dei reati già perfezionati.