Giurisprudenza interna

Le Sezioni Unite tornano a esprimersi sull’art. 316 ter c.p. Risparmio contributivo e momento consumativo: problematiche indirette nella responsabilità ex d.lgs. 231/2001

29 Maggio 2025

1. Il caso

Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite ribadiscono il confine tra truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e indebita percezione di erogazioni pubbliche, soffermandosi in particolare sulla rilevanza penale del c.d. risparmio contributivo e sul momento consumativo dell’art. 316 ter c.p. All’esito di un’ampia motivazione, la Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole ha affermato i seguenti principi:

  • «integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche previsto dall’art. 316-ter c.p. l’indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi dovuti ai lavoratori collocati in mobilità per effetto della omessa comunicazione dell’esistenza della condizione ostativa prevista dall’art. 8, comma 4-bis, legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012, n. 92), senza che assumano rilievo, a tal fine, le modalità di ottenimento del vantaggio economico derivante dall’inadempimento dell’obbligazione contributiva» (p. 32);
  • «in tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, nell’ipotesi in cui il diritto alla riduzione dei contributi previdenziali e alle agevolazioni previste per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 8 legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato a decorrere dal 1 gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012, n. 92) sia stato indebitamente conseguito per effetto di una originaria condotta mendace od omissiva, il reato è unitario a consumazione prolungata quando i relativi benefici economici siano concessi o erogati in ratei periodici e in tempi diversi, con la conseguenza che la sua consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo» (p. 38).

Ripercorrendo brevemente la vicenda giudiziaria, la sentenza del Tribunale di Lecce è stata riformata in appello proprio con riguardo al reato contestato. La Corte distrettuale ha infatti «escluso la presenza “a monte” di una condotta fraudolenta» (p. 2) da parte del soggetto agente, ritenendo dunque applicabile la fattispecie di cui all’art. 316 ter c.p., anziché la c.d. truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640 bis c.p. Nel giungere a tale decisione, sono due gli elementi che la Corte d’Appello ha valorizzato: da una parte la mancata comunicazione di un elemento doveroso, ovvero la sussistenza di una condizione ostativa per l’accesso al beneficio della «riduzione dei contributi previdenziali per i lavoratori messi in mobilità» (p. 3), e dall’altra il conseguente “risparmio di spesa” che ne è derivato.

Più nel dettaglio, all’ente imputato nel presente procedimento veniva contestato di aver indebitamente conseguito – fino al 31 dicembre 2008 – una riduzione degli oneri contributivi dovuti per duecentodieci lavoratori. Tale sgravio contributivo, infatti, non è dovuto per quei lavoratori collocati in mobilità da parte dell’impresa “che, al momento del licenziamento, presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell’impresa che assume ovvero risulta con quest’ultima in rapporto di collegamento o controllo” (art. 8, comma 4 bis, L. 223/1991). Dopo la messa in mobilità dei lavoratori, questi venivano quindi assunti dalla società ricorrente, la quale – secondo la ricostruzione accusatoria – non solo aveva come obiettivo la prosecuzione dell’attività imprenditoriale svolta dall’impresa mobilitante, ma, nelle richieste di agevolazione contributiva presentate all’I.N.P.S., tale circostanza non veniva dichiarata.

Pertanto, dopo aver brevemente ripercorso le motivazioni addotte dalle Sezioni Unite nella pronuncia in commento, in questa sede si vorranno evidenziare le problematiche applicative dei principi affermati rispetto al caso concreto. Inoltre, si cercherà di mostrare come l’eccessiva lontananza tra la disciplina della prescrizione per la persona fisica e giuridica, comporti una serie di risvolti negativi rispetto all’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. 231/2001.

 

2. Le motivazioni delle Sezioni Unite

Prima di analizzare le motivazioni addotte dal Supremo Collegio nella sentenza in commento, interessante sarà soffermarsi sulle questioni sollevate, tanto della difesa quanto dalla VI Sezione della Corte di Cassazione, tali da giustificare l’ordinanza di rimessione. Da una parte, si contestava la rilevanza penale –  ai sensi dell’art. 316 ter c.p. – di un mero risparmio di spesa derivante dal versamento parziale dei contributi previdenziali per i lavoratori assunti. Dall’altra, invece, veniva posta in discussione la natura unitaria del reato in esame, dato che, come evidenziato dalla difesa della società ricorrente, al fine di ottenere questa “decontribuzione” era necessario presentare mensilmente un modello uniforme (c.d. DM 10), sottoposto a una costante verifica da parte dell’I.N.P.S.

 

2.1. La rilevanze penale del “mero risparmio di spesa contributivo”

Guardando alla prima questione posta, la Sezione semplice della Corte di Cassazione proponeva il superamento del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nel 2010, secondo il quale costituiva “erogazione” anche un semplice vantaggio economico per il richiedente (nelle forme di un risparmio di spesa), senza che fosse necessaria una materiale elargizione di denaro. Sono molte le ragioni che hanno portato le Sezioni Unite, anche con questo ultimo loro intervento, a confermare il risalente principio di diritto. In prima battuta, è stato nuovamente rimarcato il discrimen tra l’art. 640 bis c.p. e l’art. 316 ter c.p., dove quest’ultimo – «residuale e meno grave» (p. 11) rispetto al primo – è configurabile soltanto nel caso in cui «difettino gli estremi della truffa», ovvero quando l’ente erogante non sia stato indotto in errore (circuito nella valutazione dei requisiti o dei documenti presentati) dal soggetto richiedente.

Superato tale aspetto preliminare, le Sezioni Unite hanno spostato l’attenzione al fatto tipico dell’indebita percezione di erogazioni pubbliche, interrogandosi se nei concetti di erogazione o concessione potesse rientrare anche il c.d. risparmio di spesa. Sulla base dall’ampia formulazione adottata dal legislatore, il Supremo Collegio rilevava come «il carattere “deliberatamente generico”» della condotta descritta dalla norma fosse tale da ricomprendere «qualsivoglia vantaggio economico in favore di soggetti privati». Difatti, seppur il concetto di “risparmio di spesa” non sia tipizzato, la sua rilevanza penale è ricavabile già dalla formula adottata dalla norma rispetto al “mutuo agevolato”, trattandosi – a tutti gli effetti – di un’operazione economica conclusa a condizioni più vantaggiose di quelle regolarmente previste.

Da ciò è stato dunque possibile desumere che la predisposizione di una “clausola aperta” (“altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”) fosse volta a includere «nel precetto anche la percezione dei benefici economici legati alla riduzione di un onere previdenziale o assistenziale per colui che indebitamente li abbia conseguiti secondo le diverse possibili modalità di realizzazione» (p. 17).

Nell’ordinanza di rimessione si rilevava come nell’ambito applicativo della fattispecie rientrassero unicamente quelle ipotesi in cui l’ente pubblico erogasse una somma di denaro, poi percepita indebitamente dal soggetto richiedente. Secondo tale descrizione, infatti, sarebbe da escludere il caso del mero risparmio di spesa da parte del privato, non avendo lo Stato previamente erogato una somma di denaro, ma “perdendo” la possibilità di riscuotere l’intero importo dovuto. Si tratterebbe, così come definito dalla Corte, «di una “mancata entrata di ricchezza” per effetto della correlata condotta illecita del richiedente». Muovendo dall’analisi testuale della disposizione in esame, le Sezioni Unite rilevavano come proprio grazie alla «generale formula di chiusura» impiegata con l’espressione “altre erogazioni dello stesso tipo”, il legislatore abbia inteso «ricomprendere nell’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice ogni possibile forma di attribuzione comunque agevole per il beneficiario di risorse pubbliche o eurounitarie, includendovi anche quelle indirettamente conseguite, che prescindono da un esborso iniziale di denaro» (p. 19).

Pertanto, sulla base di quanto argomentato, le Sezioni Unite affermavano come alla condotta realizzata dalla società ricorrente fosse «causalmente ricollegabile l’attribuzione del diritto alla fruizione del relativo beneficio, nella forma di un’agevolazione contributiva o di una riduzione dell’onere economico del pagamento della contribuzione a carico della società» (p. 20), e dunque sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 316 ter c.p.

 

2.2. La controversa natura del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche

Guardando ora alla seconda questione rimessa alle Sezioni Unite, venivano rilevati due orientamenti contrastanti. Secondo il primo orientamento (ormai consolidato), il reato di cui all’art. 316 ter c.p. configura un’ipotesi di reato a consumazione prolungata, dove, in caso di ratei periodici, il momento consumativo coincide con la cessazione dei pagamenti. Al contrario, per l’opposto orientamento si ritiene necessario scindere le diverse percezioni indebite ottenute in diversi momenti, trattandosi di più reati eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione. Tale questione comportava un’importante rilevanza pratica ai fini della prescrizione del reato contestato. Infatti, seguendo il primo filone giurisprudenziale, il dies a quo della prescrizione dovrebbe «decorrere dall’ultimo illecito “risparmio di spesa”» (p. 6), in quanto ogni singolo risparmio non è altro che la conseguenza di un’unica condotta originaria. Diversamente, secondo l’orientamento contrastate, ogni risparmio contributivo dovrebbe considerarsi a sé stante, e non la sommatoria di più risparmi di spesa ottenuti negli anni, che – solo complessivamente – consentono di superare la soglia di punibilità di cui all’art. 316 ter c.p. Così argomentando, la difesa sosteneva che la sequenza dei comportamenti penalmente rilevanti avrebbe dovuto ritenersi interrotta nella mensilità in cui non era stata superata la soglia di punibilità di cui al secondo comma dell’art. 316 ter c.p. In questo modo, tutte le condotte antecedenti a tale momento avrebbero dovuto ritenersi estinte e dunque non contestabili all’ente imputato, in quanto la richiesta di applicazione della misura cautelare (quale primo atto interruttivo della prescrizione) sarebbe stata formulata dal Pubblico Ministero oltre il termine quinquennale previsto dall’art. 22 d.lgs. 231/2001.

Sul punto, però, le Sezioni Unite non rilevavano un vero e proprio contrasto giurisprudenziale, in quanto i richiamati orientamenti da parte della Corte rimettente concordavano rispetto al «carattere unitario e a consumazione prolungata del reato nell’ipotesi in cui la pluralità delle erogazioni sia causalmente riconducibile ad un unico fatto originario», individuabile in un’iniziale condotta omissiva unica, scaturita da una singola e «originaria illecita deliberazione». Tale condotta, infatti, non risultava «ulteriormente frazionabile in una pluralità di atti deliberativi specificamente riferibili ad ogni singola percezione delle agevolazioni contributive» (p. 37).

In conclusione, alla luce dei principi enunciati, le Sezioni Unite concludevano rigettando il ricorso della difesa dell’ente imputato, in quanto doveva ritenersi infondata «la deduzione relativa all’evocato decorso del termine prescrizionale dell’illecito contestato alla società ricorrente» (p. 43).

 

3. L’incerta individuazione del momento consumativo del reato

A margine dell’accurata analisi delle Sezioni Unite è possibile svolgere qualche breve riflessione rispetto alla questione su cui ancora residuano margini di incertezza. Se da una parte, risulta ormai chiaro il discrimen  tra l’art. 640 bis e l’art. 316 ter c.p., e che quest’ultima fattispecie è tale da ricomprendere anche un c.d. “risparmio di spesa contributivo”; permane qualche dubbio con riguardo al momento consumativo di tale reato. La strategia difensiva dell’ente imputato era proprio quella di evidenziare le peculiarità della condotta realizzata nel caso di specie, allontanandola dunque da situazioni simili in cui l’orientamento sopra analizzato ha trovato piena applicazione.

 

3.1. Il dibattito giurisprudenziale

La questione relativa al momento e luogo di consumazione risulta essere molto dibattuta in giurisprudenza. La norma incriminatrice mira a evitare la “dispersione” del denaro pubblico, pertanto secondo un primo filone giurisprudenziale «deve ritenersi che la consumazione del reato coincide con il momento in cui l’imputato “consegue indebitamente, per sè o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo”» (così Cass. pen., Sez. VI, ud. 15 marzo 2023, n. 15120).

Secondo l’orientamento contrastante, invece, si ha la consumazione del reato quando lo Stato destina indebitamente del denaro pubblico nei confronti del soggetto richiedente, in quanto è proprio in tale istante che si verifica la c.d. deminutio patrimonii per il soggetto pubblico (cfr. Cass. pen., Sez. VI, ud. 30 novembre 2022, n. 9060).

Ancor più particolare il caso in cui il soggetto privato presenti all’ente pubblico dichiarazioni compensative di debiti o di versamenti a importo ridotto per effetto di un conguaglio. In questi casi, infatti, «il reato si consuma nel momento in cui il datore di lavoro provvede a versare all’I.N.P.S. (sulla base dei dati indicati sui modelli DM 10) i contributi ridotti per effetto del conguaglio cui non aveva diritto» (così Cass. pen., Sez. II, ud. 16 marzo 2016, n. 15989. Più recentemente, Cass. pen., Sez. VI, ud. 20 novembre 2020, n. 35274; Cass. pen., Sez. VI, ud. 21 novembre 2019, n. 7462).

Nella prassi, infatti, spesso accade che il denaro pubblico indebitamente richiesto e ottenuto, venga erogato in più soluzioni con pagamenti rateizzati (es.: indebito incasso della pensione mensilmente erogata a favore del deceduto genitore convivente, di cui non viene comunicata la morte). Tale situazione rientra nella categoria dei reati a esecuzione frazionata, dove il reato si perfeziona al conseguimento della prima rata, e si consuma con l’erogazione dell’ultima.

 

3.2. L’erronea applicazione del principio di diritto al caso concreto

Tornando ora alla questione in esame, pare condivisibile quanto affermato dalle Sezioni Unite, ovvero che non sia ravvisabile alcun contrasto giurisprudenziale, in quanto, secondo il principio ormai consolidato, l’art. 316 ter c.p. configura un reato a consumazione prolungata qualora le plurime erogazioni pubbliche siano la conseguenzaautomatica” di un’unica condotta. In questi casi, infatti, il momento consumativo andrà individuato nell’ultima rata indebitamente percepita, non trattandosi di un concorso materiale di reati, eventualmente uniti dal vincolo della continuazione. Se il principio di diritto convince in ogni suo punto, meno condivisibile appare la soluzione del caso concreto delineata dalle Sezioni Unite. Proprio quest’ultime, infatti, in un passaggio della motivazione, evidenziano la centralità della “fase genetica” della condotta criminosa, con una decisione iniziale non successivamente frazionabile, e dove ogni singola percezione indebita rappresenti la «prosecuzione degli effetti di una originaria illecita deliberazione» (p. 37). Secondo le Sezioni Unite, infatti, rispetto al caso concreto la deliberazione iniziale è individuabile nella partecipazione al bando in cui la società ricorrente aveva presentato richiesta di agevolazione contributiva, omettendo di dichiarare la sussistenza della circostanza ostativa a tale beneficio.

Guardando al caso di specie, però, la situazione appare diversa, tale dunque da non giustificare l’applicazione del principio di diritto sopra enunciato. Come già anticipato, la società ricorrente, omettendo di indicare la sussistenza di condizioni ostative alla percezione del beneficio contributivo, compilava mensilmente i c.d. “modelli DM 10”, denunciando all’I.N.P.S. «le retribuzioni mensili corrisposte ai suoi dipendenti, i contributi dovuti e l’eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell’ente con le agevolazioni e gli sgravi previdenziali» (p. 39).

Secondo quanto ribadito dalle Sezioni Unite circa il reato a esecuzione frazionata, il primo atto deve essere di per sé idoneo a far scaturire le successive (e automatiche) erogazioni, che potrebbero interrompersi solo con un successivo intervento dello stesso agente. Riprendendo l’esempio fatto precedentemente, per ripristinare una “situazione di legalità”, il figlio, che fino a quel momento ha percepito mensilmente la pensione del padre defunto, dovrebbe dichiarare all’ente competente la morte del reale percettore di tale misura assistenziale, così che possa cessare – in via definitiva – l’erogazione indebita del beneficio.

In questo caso, invece, vero che la società ricorrente ha partecipato a un bando di gara in cui non ha dichiarato la sussistenza di una condizione ostativa al beneficio, ma il relativo risparmio contributivo (il conseguimento indebito dell’erogazione pubblica richiesto dalla lettera della norma come elemento costitutivo della fattispecie delittuosa) veniva conseguito soltanto nel momento in cui l’agente presentava mensilmente il c.d.  modello DM 10 all’I.N.P.S. (cfr. Cass. pen., Sez. VI, ud. 21 novembre 2019, n. 7462).

Sarebbe stato quindi più corretto parlare di concorso materiale di reati, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione, dove ogni singolo risparmio avrebbe dovuto considerarsi a sé stante (come del resto ritenuto dalla stessa Corte di legittimità in casi analoghi, cfr. Cass. pen., Sez. VI, ud. 26 novembre 2019, n. 7963). Questo quindi comporta due conseguenze: da un lato, il giudice deve preliminarmente valutare se per ogni mensilità sia stata superata la soglia di punibilità di cui all’art. 316 ter, comma 2, c.p. ritenendo eventualmente irrilevanti penalmente quelle richieste di risparmio contributivo sottosoglia (cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Parere 11 ottobre 2016 n. 18746); e dall’altro, qualora ritenesse sussistente il vincolo della continuazione, individuare il dies a quo della prescrizione proprio dall’ultima richiesta penalmente rilevante avanzata all’ente pubblico.

 

3.3. Perfezionamento e individuazione della fase genetica del reato

Peraltro, non convince l’argomentazione avanzata dalle Sezioni Unite nella parte in cui individua, come unica condotta originaria, il diritto al risparmio contributivo riconosciuto dall’I.N.P.S. all’esito del bando al quale la società ricorrente ha partecipato. L’affermazione secondo cui con «l’indebito conseguimento del diritto di percepire una serie di agevolazioni contributive» (p. 42) la fattispecie in analisi debba dirsi perfezionata, non appare condivisibile. Del resto, non potrà considerarsi perfezionato il reato se ancora non è individuato – né tantomeno individuabile – la somma di denaro (o in tal caso il risparmio) indebitamente conseguita. La stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, ritiene il superamento della soglia di punibilità di cui al secondo comma, quale elemento costitutivo del reato, e non una mera condizione obiettiva di punibilità (ex multis, Cass. pen., Sez. VI, ud. 24 giugno 2021, n. 31223).

Pertanto, se per avere un reato perfezionato è necessario che sussistano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, seppur nel loro contenuto minimo, nel momento in cui alla società veniva riconosciuto il diritto a beneficiare del risparmio contributivo, difettava proprio il conseguimento di denaro pubblico oltre la soglia predeterminata ai fini della rilevanza penale. Anche a voler preferire i primi due orientamenti sopra riportati rispetto al momento consumativo, nell’istante in cui la società ricorrente ha conseguito (indebitamente) tale diritto dopo il bando pubblico, non era ravvisabile né un’effettiva percezione da parte dell’agente, né tantomeno una disposizione patrimoniale da parte dell’ente pubblico. Da ciò discende, quindi, che è corretto individuare il momento consumativo del reato nell’istante in cui il datore di lavoro – sulla base del modello DM 10 – versi all’I.N.P.S. i contributi in misura ridotta, importo che dovrà essere considerato per ogni versamento mensile e non dalla sommatoria di tutti i risparmi di spesa ottenuti in un certo lasso di tempo.

In conclusione, quindi, avrebbe dovuto trovare applicazione la ricostruzione difensiva, in quanto in una delle mensilità comprese nel periodo oggetto di contestazione (precisamente, nel mese di gennaio 2017), non era stata superata la soglia di punibilità di cui all’art. 316 ter, comma 2, c.p., interrompendo dunque la sequenza di condotte penalmente rilevanti, terminate nel mese di dicembre 2006. Pertanto, al momento della richiesta di applicazione della misura cautelare, l’illecito amministrativo avrebbe dovuto considerarsi già prescritto ai sensi dell’art. 22 d.lgs. 231/2001, essendo ormai decorso il termine quinquennale previsto dalla norma.

 

4. Riflessioni a margine: l’irragionevole distanza tra la prescrizione della persona fisica e giuridica

Seppur la sentenza in commento analizzi soltanto in via incidentale i profili della responsabilità ex d.lgs. 231/2001, è possibile svolgere qualche breve riflessione conclusiva rispetto all’incidenza che i principi di diritto affermati hanno avuto sulla responsabilità giuridica dell’ente. Con la sentenza in commento, infatti, è stato possibile osservare la distanza tra la disciplina della prescrizione per la persona fisica e giuridica, riproponendo il dibattuto tema rispetto all’opportunità di scindere – in maniera così netta – l’istituto della prescrizione per le due diverse responsabilità, che vengono però accertate nella medesima sede, ovvero il processo penale (rispetto a tale questione, si rinvia al post “La Cassazione torna a pronunciarsi sulla prescrizione nel d.lgs. n. 231/2001: una conferma bis di legittimità”).

Se la prescrizione del reato presupposto è ostativa alla contestazione dell’illecito amministrativo (in forza dell’istituto della decadenza di cui all’art. 60 d.lgs. 231/2001), l’intervento di tale causa di estinzione del reato nelle more del processo penale, non solo non estingue anche la responsabilità dell’ente (ai sensi dell’art. 8 d.lgs. cit.), ma, ai sensi dell’art. 22, comma 3, d.lgs. cit., la contestazione dell’illecito amministrativo interrompe definitivamente il termine quinquennale della prescrizione prevista per le sanzioni amministrative, che ricomincerà a decorrere dal momento in cui la sentenza che definisce il giudizio passa in giudicato.

Se originariamente la legge delega immaginava la disciplina della prescrizione per l’ente più vicina al modello civilistico (al quale veniva fatto espresso rinvio proprio con riguardo agli atti interruttivi, cfr. art. 11, comma 1, lett. r) legge delega n. 300/2000), ad oggi – anche grazie alla centralità assunta negli ultimi anni dalla colpa d’organizzazione – l’intera struttura della responsabilità dell’ente sembra sempre più orientata verso un modello penalistico. In conclusione, quindi, l’interrogativo che rimane in sospeso è se i tempi non siano oramai maturi per ripensare anche tale istituto, avvicinandolo sempre più alla responsabilità penale della persona fisica, tenendo proprio in considerazione l’afflittività di una sanzione amministrativa – soprattutto se interdittiva – irrogata molti anni dopo il reato commesso dalla persona fisica, magari proprio quando una “rimproverabilità dell’ente” non sia più individuabile.

Luigi També, Dottorando di ricerca in Diritto penale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore. Praticante Avvocato

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